3. TELLUS STABILITA (3)
"Humanitas, Felicitas, Libertas": queste belle parole incise sulle monete del mio regno, non le ho inventate io. Qualsiasi filosofo greco, qualsiasi romano colto si propone del mondo la stessa immagine che mi propongo io. Ho sentito Traiano, messo di fronte a una legge ingiusta perché troppo rigorosa, protestare che la sua applicazione non rispondeva più allo spirito dei tempi. Ma, a questo spirito dei tempi, forse sarò stato io il primo a subordinare coscientemente tutte le mie azioni, a farne qualcosa di diverso dai sogni nebulosi del filosofo, dalle aspirazioni vaghe del buon principe. E ringraziavo gli déi per avermi concesso di vivere in un'epoca, in cui il compito che m'era toccato in sorte consisteva nel riorganizzare prudentemente un mondo già vivo, e non nell'estrarre dal caos una materia ancora informe, o nel distendermi su di un cadavere per cercar di risuscitarlo. Mi rallegravo che il nostro passato fosse antico abbastanza per fornirci esempi eccellenti, e non tanto pesante da schiacciarci con essi; che lo sviluppo della nostra tecnica fosse pervenuto al punto da facilitare l'igiene delle città e la prosperità dei popoli, ma non a quell'eccesso in cui rischierebbe di sommergere l'uomo con acquisizioni inutili; che le nostre arti, alberi un poco esausti per la gran copia dei loro doni, fossero ancora capaci di qualche frutto squisito. Mi rallegravo che le nostre religioni vaghe e venerabili, purificate da intransigenze e da riti feroci, ci associassero misteriosamente ai sogni più antichi dell'uomo e della terra, ma senza inibirci una spiegazione «laica» dei fatti, un'intuizione razionale della condotta umana. Mi piaceva infine che queste stesse parole, Umanità, Felicità, Libertà non fossero ancora avvilite da tante applicazioni ridicole.
A ogni sforzo per migliorare la condizione umana si oppone una obbiezione: forse, gli uomini non ne sono degni. Ma mi è facile eluderla: sino a che resterà irrealizzato il sogno di Caligola, e il genere umano tutt'intero non si ridurrà a una sola testa offerta alla scure, ci toccherà tollerarlo, raffrenarlo, volgerlo ai nostri fini; la cosa più vantaggiosa per noi sarà di servirlo. Questo principio si basava su una serie di osservazioni compiute da tempo su me stesso: non c'è mai stata una spiegazione chiara che non mi abbia convinto, un'amabilità che non mi abbia conquistato, una gioia che non m'abbia quasi sempre reso migliore. E ascoltavo a metà i bene intenzionati i quali affermano che la felicità snerva, che la libertà infiacchisce, che la dolcezza vizia coloro sui quali si esercita. Può darsi: ma, se consideriamo come va il mondo, seguire costoro è come rifiutarsi di nutrire a sufficienza un uomo emaciato, per paura che tra qualche anno gli capiti di diventare pletorico. Quando si saranno alleviate sempre più le schiavitù inutili, si saranno scongiurate le sventure non necessarie, resterà sempre, per tenere in esercizio le virtù eroiche dell'uomo, la lunga serie dei mali veri e propri: la morte, la vecchiaia, le malattie inguaribili, l'amore non corrisposto, l'amicizia respinta o tradita, la mediocrità d'una vita meno vasta dei nostri progetti e più opaca dei nostri sogni: tutte le sciagure provocate dalla natura divina delle cose.
Bisogna che lo confessi: credo poco alle leggi. Se troppo dure, si trasgrediscono, e con ragione. Se troppo complicate, l'ingegnosità umana riesce facilmente a insinuarsi entro le maglie di questa massa fragile, che striscia sul fondo. Il rispetto delle leggi antiche corrisponde a quel che la pietà umana ha di più profondo; e serve come guanciale per l'inerzia dei giudici. Le leggi più antiche non sono esenti da quella selvatichezza che miravano a correggere, le più venerabili rimangono ancora un prodotto della forza. La maggior parte delle nostre leggi penali - e forse è un bene - non raggiungono che un'esigua parte dei colpevoli; quelle civili non saranno mai tanto duttili da adattarsi all'immensa e fluida varietà dei fatti. Esse mutano meno rapidamente dei costumi; pericolose quando sono in ritardo, ancor più quando presumono di anticiparli. E tuttavia, da questo cumulo di innovazioni pericolose e di consuetudini antiquate emerge qua e là, come in medicina, qualche formula utile. I filosofi greci ci hanno insegnato a conoscere un po' meglio la natura umana; i nostri migliori giuristi da qualche generazione rivolgono le loro cure nella direzione del senso comune. Ho posto in atto anch'io talune di quelle riforme parziali che sono le sole durevoli. Ogni legge trasgredita troppo spesso è cattiva; spetta al legislatore abrogarla o emendarla, per impedire che il dispregio in cui è caduta quella stolta ordinanza si estenda ad altre leggi più giuste. Mi proposi d'eliminare cautamente le leggi superflue e di promulgare con fermezza un piccolo numero di saggi decreti. Sembrava giunta l'ora di riesaminare, nell'interesse dell'umanità, tutte le prescrizioni antiche.
In Spagna, nei dintorni di Tarragona, un giorno in cui visitavo da solo una miniera semiabbandonata, uno schiavo, la cui intera esistenza era trascorsa in quelle gallerie sotterranee, si scagliò su di me con un pugnale. Non mancava di logica se cercava di vendicarsi sull'imperatore dei suoi quarantatré anni di servaggio. Lo disarmai senza fatica, lo consegnai al mio medico, e il furore cadde di colpo: egli si trasformò in quel ch'era veramente, un essere non meno sensato e più fedele di molti altri. La legge, se crudelmente applicata, avrebbe fatto giustizia immediatamente, di quello sciagurato; e invece, egli divenne per me un servo eccellente. La maggior parte degli uomini somiglia a quello schiavo: troppo sottomessi, interrompono lunghi periodi di torpore con rivolte brutali quanto inutili. Volevo sperimentare se la libertà, saggiamente intesa, non avrebbe dato migliori frutti, e mi stupisco che un'esperienza simile non abbia tentato un maggior numero di principi. Quel barbaro condannato a lavorare nelle miniere divenne per me l'emblema di tutti i nostri schiavi, di tutti i nostri barbari. Non mi sembrava impossibile trattarli come avevo trattato quell'uomo, renderli inoffensivi a forza di bontà, purché sapessero anzitutto che la mano che li disarmava era ferma. Fino a oggi, tutti i popoli sono periti per mancanza di generosità: Sparta sarebbe sopravvissuta più a lungo se avesse interessato gli Iloti alla sua sopravvivenza. Viene il giorno che Atlante cessa di sostenere il peso del cielo e la sua rivolta squassa la terra. Avrei voluto allontanare il più possibile, evitarlo, se si poteva, il momento in cui i barbari dall'esterno, gli schiavi dall'interno si sarebbero avventati su un mondo che si pretende essi rispettino da lontano o servano dal basso, ma i cui benefici sono a loro interdetti. Tenevo a che la più diseredata delle creature, lo schiavo che sgombra le cloache delle città, il barbaro famelico che si aggira minaccioso alle frontiere, avessero interesse a veder durare Roma.
Non credo che alcun sistema filosofico riuscirà mai a sopprimere la schiavitù: tutt'al più, ne muterà il nome. Si possono immaginare forme di schiavitù peggiori delle nostre, perché più insidiose: sia che si riesca a trasformare gli uomini in macchine stupide e appagate, che si credono libere mentre sono asservite, sia che si imprima in loro una passione forsennata per il lavoro, divorante quanto quella della guerra presso le razze barbare, tale da escludere gli svaghi, i piaceri umani. A questa schiavitù dello spirito o dell'immaginazione umana, preferisco ancora la nostra schiavitù di fatto. Qualunque cosa avvenga, la condizione orribile che mette l'uomo alla mercé d'un altro uomo esige un'attenta regolamentazione giuridica. Ho provveduto affinché lo schiavo non sia più una mercanzia anonima che si vende senza tener conto dei legami di famiglia che si è creati, un oggetto spregevole la cui testimonianza non viene accolta dal giudice se non dopo averlo sottoposto alla tortura, invece di accettarla sotto giuramento. Ho proibito che lo si obbligasse a mestieri disonoranti o rischiosi, che lo si vendesse ai tenutari di postriboli o alle scuole per gladiatori. Coloro che si compiacciono di queste professioni, le esercitino pure: le eserciteranno meglio. Nelle fattorie, dove gli amministratori abusano delle sue forze, spesso ho rimpiazzato lo schiavo con coloni liberi. Le nostre raccolte di aneddoti rigurgitano di storie di crapuloni che gettano i domestici alle murene, ma i crimini scandalosi, facilmente punibili, son poca cosa di fronte alle mille e mille angherie oscure, perpetrate ogni giorno da persone cosiddette perbene, ma dal cuore arido, che nessuno si sogna di molestare. Si è protestato quando bandii da Roma una patrizia, facoltosa e stimata, perché maltrattava i suoi vecchi schiavi: qualsiasi ingrato che trascura i genitori infermi scuote di più la coscienza pubblica, ma io non vedo molta differenza tra queste due forme di crudeltà inumana.
La condizione della donna è determinata da strani costumi: esse sono sottoposte e protette allo tempo stesso, deboli e potenti, troppo disprezzate e troppo rispettate. In questo caos di usanze contraddittorie, i rapporti sociali si sovrappongono a quelli di natura: anzi, non è facile distinguerli. Questo stato di cose confuso è ovunque più stabile di quel che non sembri: in generale, le donne vogliono essere quel che sono, resistono ai cambiamenti o li volgono esclusivamente ai propri fini. La libertà delle donne di oggigiorno, più grande o almeno più apparente che ai tempi antichi, in fondo non è altro che uno degli aspetti della maggiore facilità della vita propria delle epoche prospere; i principi, e anche i pregiudizi d'altri tempi, in realtà non sono stati seriamente intaccati. Gli elogi tributati in sede ufficiale e le iscrizioni tombali, sincere o no, continuano ad attribuire alle nostre matrone quelle stesse virtù di operosità, di castità, di austerità che si esigevano da loro sotto la Repubblica. Le modifiche, vere o presunte, non hanno apportato il minimo cambiamento nell'eterna sregolatezza del popolo, o nella perpetua affettazione di pudore della borghesia; solo il tempo proverà se sono durature. La debolezza delle donne, come quella degli schiavi, dipende dalla loro condizione legale; la loro forza si prende la rivincita nelle piccole cose, e qui il potere che esercitano è quasi illimitato. Di rado ho visto una casa dove le donne non regnassero; spesso, vi ho visto regnare anche l'amministratore, il cuoco, il liberto. Sul terreno finanziario, esse restano sottoposte a una forma qualsiasi di tutela, ma, in pratica, in qualsiasi bottega della Suburra di solito è la pollivendola o l'erbivendola che fa da padrona, al banco. La moglie di Attiano amministrava i beni della famiglia come un eccellente uomo d'affari. Le leggi dovrebbero differire il meno possibile dalle usanze: ho accordato alla donna una maggior libertà di amministrare la propria fortuna, di far testamento o di ereditare. Ho insistito affinché nessuna fanciulla sia data in moglie senza il suo consenso: lo stupro legale è ripugnante quanto qualsiasi altro. Il matrimonio è la faccenda dominante, per loro; è troppo giusto che lo concludano solo se è di loro pieno piacimento.
Una parte dei nostri mali dipende dal fatto che troppi uomini sono oltraggiosamente ricchi, o disperatamente poveri. Per fortuna, ai nostri giorni tende a stabilirsi un equilibrio tra questi due estremi: le fortune colossali degli imperatori e dei liberti son cose del passato: sono morti Trimalcione e Nerone. Ma c'è ancora molto da fare per ridimensionare il mondo secondo criteri razionali. Assumendo il potere, ho rinunciato alle contribuzioni volontarie offerte dalle città all'imperatore; non sono che un furto mascherato. Ti consiglio di rinunciarvi a tua volta. Cancellare del tutto i debiti dei privati verso lo Stato era una misura più ardita, ma fu necessaria, per far "tabula rasa" dopo dieci anni di economia di guerra. Da un secolo in qua, la nostra moneta si è pericolosamente svalutata: tuttavia l'eternità di Roma viene valutata al tasso delle nostre monete d'oro; spetta a noi reintegrare il loro valore e il loro peso, solidamente misurati in beni. Le nostre terre sono coltivate a caso: solo qualche distretto privilegiato, l'Egitto, l'Africa, la Toscana e pochi altri, hanno saputo crearsi comunità contadine sapientemente addestrate alla cultura del grano e dei vigneti. Sostenere questa classe, trarne istruttori per le popolazioni contadine più primitive o più consuetudinarie, meno capaci, è stata una delle mie cure. Ho messo fine allo scandalo delle terre lasciate incolte dai grandi proprietari poco solleciti del bene pubblico: d'ora in avanti, ogni campo non coltivato da cinque anni apparterrà all'agricoltore che s'incaricherà di trarne buon partito.
Pressappoco lo stesso avviene per le miniere. La maggior parte dei ricchi offre donazioni ingenti allo Stato, alle istituzioni pubbliche, al sovrano; molti lo fanno per interesse, alcuni per virtù, quasi tutti, per profittarne. Ma io avrei voluto che la loro generosità prendesse forme diverse da quella della beneficenza ostentata; avrei voluto insegnare loro a incrementare saggiamente i loro beni nell'interesse della comunità, come fino a oggi hanno fatto solo al fine di arricchire i loro figli. Io stesso ho preso in mano la gestione del patrimonio imperiale con questo proposito: nessuno ha diritto di trattare la terra come l'avaro il suo gruzzolo d'oro.
I nostri mercanti, a volte, sono i nostri migliori geografi, i nostri migliori astronomi, i naturalisti più sapienti. Tra i nostri banchieri, vi sono i più abili conoscitori d'uomini. Ho utilizzato le competenze, ho lottato con tutte le mie forze contro gli usurpatori. L'appoggio prestato agli armatori ha moltiplicato i nostri scambi con le nazioni straniere; così, con poca spesa, sono riuscito a rafforzare la costosa flotta imperiale: l'Italia è un'isola, riguardo alle importazioni dall'Oriente e dall'Africa, e rimane alla mercè dei mediatori di grano per la propria sussistenza, dato che non vi sopperisce più da sola; l'unico mezzo per ovviare ai pericoli di questa situazione è di trattare alla stregua di funzionari strettamente sorvegliati questi indispensabili uomini d'affari. Negli ultimi anni, le nostre vecchie province son salite a un livello di prosperità che non è forse impossibile incrementare ancora; ma l'importante è che questa prosperità serva a tutti, e non solamente alla banca di Erode Attico o al piccolo speculatore che incetta l'olio d'un villaggio greco. Una legge non sarà mai abbastanza dura, se consente di ridurre il numero di intermediari che formicolano nelle nostre città: razza oscena e avida, che sussurra in tutte le taverne, affolla tutti i banchi di mescita, pronta a sabotare qualsiasi politica che non le frutti un profitto immediato. Una ripartizione oculata dei granai dello Stato contribuisce a frenare l'inflazione scandalosa dei prezzi, che si verifica in tempi di scarsità; ma io contavo soprattutto sull'organizzazione dei produttori, dei vignaioli di Gallia, dei pescatori del Ponto Eusino, il cui compenso vilissimo vien divorato dagli importatori di caviale e di pesce salato che prosperano sul loro lavoro e sui loro rischi. Il giorno in cui riuscii a persuadere un gruppo di marinai dell'Arcipelago ad associarsi in corporazione e a trattare direttamente con i rivenditori delle città fui davvero contento. Mai ho sentito di più l'utilità del mio principato.
Troppo spesso, per l'esercito la pace non è che un periodo di disoccupazione turbolenta tra due battaglie: l'alternativa all'inazione o al disordine è la preparazione, in vista d'una guerra determinata; poi la guerra. Ho rotto con queste consuetudini: le mie visite insistenti agli avamposti non erano che un mezzo tra tanti per tenere in una sana attività quell'esercito pacifico. Dappertutto, in pianura, tra i monti, al limitare delle foreste, in pieno deserto, la legione estende o concentra le sue costruzioni, sempre le stesse; crea i campi per le manovre, i baraccamenti destinati, a Colonia, a resistere alla neve, a Lambesia, a fronteggiare le tempeste di sabbia; i magazzini - dei quali avevo fatto vendere il materiale inutile, il circolo degli ufficiali, al quale presiede una statua del principe. Ma questa uniformità è solo apparente: questi alloggiamenti interscambiabili contengono la folla delle truppe ausiliarie, diversa ogni volta; tutte le razze apportano all'esercito le loro virtù, le loro armi particolari, la loro specie di fanti, di cavalieri, di arcieri. Vi ritrovavo, allo stato bruto, quella varietà nell'unità che fu il mio fine imperiale. Ho permesso ai soldati di usare il loro grido di guerra nazionale, di impartire e ricevere ordini nelle loro lingue; ho sanzionato le unioni dei veterani con donne barbare, ho legittimato i loro figli. Ho fatto di tutto anche per attenuare la durezza della vita al campo, per trattare quegli uomini semplici da uomini. A rischio di renderli meno mobili volli che si affezionassero a quell'angolo di terra che erano destinati a difendere; non esitai a «regionalizzare» l'esercito. Speravo di ristabilire, su scala imperiale, l'equivalente delle milizie della giovane Repubblica, quando ogni uomo difendeva il suo campo, la sua fattoria. Ho inteso, soprattutto, sviluppare l'efficienza tecnica delle legioni; volevo servirmi di quei centri militari come d'una molla di civilizzazione, d'un cuneo tanto solido da penetrare a poco a poco là dove gli strumenti più delicati della vita civile si sarebbero spuntati. L'esercito diveniva così un tramite tra le popolazioni delle selve, delle steppe, delle paludi, e i raffinati abitatori delle città; una scuola elementare per barbari, scuola di resistenza e di responsabilità per il greco letterato, o per il giovane cavaliere avvezzo agli agi di Roma. Conoscevo di persona gli aspetti penosi di quella vita, nonché le sue facilitazioni, i suoi sotterfugi. Abolii i privilegi; interdissi i congedi troppo frequenti accordati agli ufficiali; feci sbarazzare gli accampamenti delle sale di banchetti, dei padiglioni di piacere, dei costosissimi giardini. Quegli edifici inutili divennero infermerie, ospizi per i veterani. Noi reclutavamo i nostri soldati in età troppo acerba, e li trattenevamo in servizio per troppi anni; e questo era allo stesso tempo antieconomico e crudele. Ho cambiato tutto ciò. La Disciplina Augusta deve a se stessa di partecipare all'umanità del mio secolo.
Noi siamo funzionari dello Stato, non siamo Cesari. Aveva ragione quella postulante, che m'ero rifiutato un giorno di ascoltare fino alla fine, quando esclamò che se mi mancava il tempo per darle retta, mi mancava il tempo per regnare. Le scuse che le feci non erano solo formali. E, tuttavia, il tempo mi manca: più l'impero si estende, più i vari aspetti dell'autorità tendono a concentrarsi nelle mani del funzionario in capo; quest'uomo oberato necessariamente deve scaricare su altre persone una parte dei suoi compiti; il suo genio consisterà sempre più nel circondarsi di gente fidata. Il peggior crimine di Claudio e di Nerone fu di lasciare pigramente che i loro liberti o i loro schiavi s'impadronissero di queste funzioni di agenti, consiglieri, delegati del capo supremo. Ho trascorso una parte della mia vita e dei miei viaggi a scegliere i capi d'una burocrazia nuova, a esercitarli, e adeguare con il maggior fiuto possibile le capacità alle mansioni; a creare utili possibilità d'impiego per questa classe media dalla quale dipende lo Stato. Il pericolo che si cela in questi eserciti civili non mi sfugge; lo si può definire in una parola: la mentalità burocratica. Questi ingranaggi, destinati a durare per secoli, si guasteranno se non vi si bada: spetta al padrone regolarne i movimenti, senza posa, prevederne, o ripararne l'usura. Ma l'esperienza dimostra che, a onta della cura estrema che poniamo nella scelta dei successori gli imperatori mediocri saranno sempre i più frequenti, e che per ogni secolo c'è almeno un insensato sul trono. In tempi di crisi, questa burocrazia perfettamente organizzata potrà seguitare a sbrigare l'essenziale e colmare l'interregno, a volte molto lungo, tra un principe saggio e un altro. Certi imperatori si trascinano dietro cortei di barbari in catene, processioni interminabili di vinti. Ben altro è il mio seguito: è l'eletta schiera di funzionari che ho inteso formare. Il Consiglio del principe; grazie a coloro che lo compongono, ho potuto assentarmi da Roma per anni, e tornarvi solo di passaggio. Corrispondevo con i membri del Consiglio attraverso i corrieri più rapidi; in caso di pericolo, mediante i segnali dei semafori. Essi, a loro volta, hanno formato altri ausiliari egregi: la loro competenza è opera mia, la loro attività ben regolata m'ha permesso di impiegare me stesso altrove, e mi consentirà senza eccessive inquietudini di assentarmi nella morte.
Su venti anni di potere, dodici li ho trascorsi senza fissa dimora. Ho abitato di volta in volta i palazzi dei mercanti in Asia, le oneste case greche, le belle ville munite di bagni e stufe dei residenti romani in Gallia, i tuguri, le fattorie. La tenda, quella leggera architettura di tela e di corde, era ancora l'abitazione che preferivo. Non meno varie le navi delle abitazioni; ebbi la mia, provvista di un ginnasio e d'una biblioteca, ma diffidavo troppo di qualsiasi forma di stabilità per legarmi a una dimora, anche se mobile: la barca di piacere d'un ricco siriano, i vascelli d'alto bordo della nostra flotta o il caicco d'un pescatore greco andavano per me egualmente bene. L'unica mia esigenza era la velocità e tutto ciò che la seconda: i cavalli migliori, le vetture più molleggiate, i bagagli meno ingombranti, gli abiti, le suppellettili più adatte al clima. Ma la grande risorsa era, innanzi tutto, lo stato perfetto del corpo: una marcia forzata di venti leghe non era niente; una notte insonne la consideravo null'altro che un invito a pensare. Sono pochi gli uomini che amano viaggiare a lungo; è una frattura continua di tutte le abitudini, una smentita inflitta incessantemente a tutti i pregiudizi. Ma io facevo di tutto per non aver alcun pregiudizio, e pochissime abitudini. Apprezzavo la delizia d'un letto soffice, ma anche il contatto, l'odore stesso della terra nuda, le disuguaglianze di ogni segmento della circonferenza del mondo. Ero avvezzo alla varietà degli alimenti, all'orzo britannico e ai frutti africani. Un giorno, mi capitò di assaggiare perfino la selvaggina semiputrefatta, considerata una ghiottoneria presso certe tribù germaniche: la rigettai, ma l'esperienza fu tentata.
Benché nettamente deciso nelle mie preferenze in amore, persino lì paventavo la consuetudine. Il mio seguito, che si limitava a persone indispensabili o squisite, mi isolava ben poco dal resto del mondo; vigilai che i miei movimenti restassero liberi, facile l'accesso alla mia persona. Le province, quelle grandi unità ufficiali alle quali io stesso avevo scelto gli emblemi, la Britannia sul suo seggio di rocce, la Dacia con la sua scimitarra, si trasformavano per me nelle foreste di cui avevo cercato l'ombra, nei pozzi ai quali avevo bevuto, negli individui incontrati nelle soste, visi noti, a volte amati. Mi era noto ogni miglio delle nostre strade, forse sono il più bel dono che Roma abbia fatto alla terra. Ma il momento indimenticabile era quello in cui la strada cessava, sul fianco d'una montagna, e di crepaccio in crepaccio, di roccia in roccia, ci s'inerpicava per assistere all'aurora dall'alto d'una cima dei Pirenei o delle Alpi.
Già altri uomini prima di me avevano percorso la terra: Pitagora, Platone, una dozzina di saggi, e un buon numero di avventurieri. Per la prima volta, però, quel viaggiatore era al tempo stesso il padrone, libero al tempo stesso di vedere e di riformare, libero di creare. Era la mia sorte; e mi rendevo conto che forse sarebbero trascorsi secoli prima che si ristabilisse quel felice accordo di una funzione, d'un temperamento, d'un mondo. E mi accorsi quanto sia vantaggioso essere un uomo nuovo, solo, quasi esente da vincoli matrimoniali, senza figli, quasi senza avi, un Ulisse senz'altra Itaca che quella interiore. Conviene che io faccia qui una confessione che non ho fatto a nessuno: non ho mai avuto la sensazione di appartenere completamente a nessun luogo, neppure alla mia dilettissima Atene, neppure a Roma. Straniero dappertutto, non mi sentivo particolarmente isolato in nessun luogo. Cammin facendo, esercitavo le diverse professioni di cui si compone il mestiere di imperatore: indossavo la vita militare come un vestito che è diventato comodo a furia d'esser portato. Senza sforzo, ritrovavo tra le mie labbra il gergo degli accampamenti, quel latino deformato dall'incalzare delle lingue barbare, punteggiato di bestemmie rituali e di facezie scontate; mi riabituavo all'equipaggiamento ingombrante delle manovre, a quella tensione d'equilibrio che imprime su tutto il corpo il carico dello scudo massiccio al braccio sinistro. Il tedioso mestiere di contabile mi teneva, dovunque, ancor più legato, sia che si trattasse di verificare i conti delle province d'Asia o quelli d'una piccola borgata britannica indebitata per la costruzione d'uno stabilimento termale. Del mestiere di giudice ho già parlato. Mi si affacciavano alla mente analogie con altre attività: pensavo al medico ambulante che visita le persone di porta in porta, all'operaio chiamato a riparare un argine o rinsaldare una conduttura d'acqua, al sorvegliante che percorre avanti e indietro il ponte della nave, incitando i rematori, ma servendosi il meno possibile della sferza. E oggi, sulle terrazze della Villa, mentre osservo gli schiavi potare i rami o sfrondare le siepi, penso soprattutto all'onesto andirivieni del giardiniere.