×

Utilizziamo i cookies per contribuire a migliorare LingQ. Visitando il sito, acconsenti alla nostra politica dei cookie.


image

Cristo si è fermato a Eboli - Carlo Levi, L'AUTORE ALL'EDITORE

L'AUTORE ALL'EDITORE Carissimo Giulio, il mio libro Cristo si è fermato a Eboli comincia, tu lo sai, con le parole: «Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si usa chiamare la Storia». Ora, di nuovo molti anni sono passati, di guerra e di storia, e di mutamenti delle cose e degli uomini, anni così gremiti e densi e rinnovatori che non possono descriversi con numeri, perché ogni loro momento vivo è stato, come avviene delle cose reali, eterno. E se tu dài oggi nuova veste a questo libro, diciotto anni dopo la tua prima edizione, quella nella rara carta grigiastra del 1945, quando la tua Casa editrice rinasceva dopo la forzata interruzione della guerra, e la morte di Leone Ginzburg, e la dispersione di tutti noi, o venti anni dopo il giorno in cui ne avevo scritto, senza sapere che cosa sarebbe avvenuto poi; quelle prime parole, e avevo da esse cominciato a svolgere, sul filo della memoria, non solo gli avvenimenti del passato, ma la contemporaneità infinita e poetica dei tempi e dei destini, in una casa di Firenze, rifugio alla morte feroce che percorreva le strade della città tornata primitiva foresta di ombre e di belve, questi diciotto, questi venti anni, sono forse un'epoca, o forse un breve momento. Ogni momento, allora, poteva essere l'ultimo, era in sé l'ultimo e il solo: non v'era posto per ornamenti, esperimenti, letteratura: ma soltanto per la verità reale, nelle cose e al di là delle cose. E per l'amore, sempre troncato e indifeso, ma tale da tenere insieme, lui solo, un mondo che, senza di esso, si sarebbe sciolto e annullato. La casa era un rifugio: il libro una difesa attiva, che rendeva impossibile la morte. Non l'ho mai più riletto, intero, poi: del tutto obiettivato, mi è rimasto nella mente come un'immagine giovanile di pura energia, indistruttibile dalle cose su cui si volge, melanconico e amoroso, il giudizio e lo sguardo. Chi era dunque quell'io, che si aggirava, guardando per la prima volta le cose che sono altrove, nascosto come un germoglio sotto la scorza dell'albero, tra quelle argille deserte, nella immobilità secolare del mondo contadino, sotto l'occhio fisso della capra? Era forse anch'esso un altro, un giovane ignoto e ancora da farsi, che il caso e il tempo avevano spinto laggiù, sotto quei gialli occhi animali, quei neri occhi di donne, di uomini, di fanciulli (occhi neri che i pianti d'infinite vigilie fatto han vuoti, guardate nel profondo dell'anima) perché si trovasse nell'altrove, nell'altro da sé, perché scoprisse la storia fuori della storia, e il tempo fuori del tempo, e il dolore prima delle cose, e se stesso, fuori dello specchio dell'acque di Narciso, negli uomini, sulla terra arida? O era forse quello stesso di oggi, nel suo primo, celato, giovanile atto di fiducia?

Certo, l'esperienza intera che quel giovane (che forse ero io) andava facendo, gli rivelava nella realtà non soltanto un paese ignoto, ignoti linguaggi, lavori, fatiche, dolori, miserie e costumi, non soltanto animali e magia, e problemi antichi non risolti, e una potenza contro il potere, ma l'alterità presente, la infinita contemporaneità, l'esistenza come coesistenza, l'individuo come luogo di tutti i rapporti, e un mondo immobile di chiuse possibilità infinite, la nera adolescenza dei secoli pronti ad uscire e muoversi, farfalle dal bozzolo; e l'eternità individuale di questa vicenda, la Lucania che è in ciascuno di noi, forza vitale pronta a diventare forma, vita, istituzioni, in lotta con le istituzioni paterne e padrone, e, nella loro pretesa di realtà esclusiva, passate e morte. La sola grande fortuna di quel giovane fu di essere (per età, per formazione, per carattere, per impossibilità di accettare un mondo negativo) così libero dal proprio tempo, così da esso esiliato, da poter essere veramente un contemporaneo: e non soltanto un contemporaneo della contemporaneità illimitata, ma, nei fatti, un contemporaneo degli uomini nuovi, dei piccoli, degli oscuri con cui ebbe la ventura di vivere e di formarsi e conoscersi. Così egli si trovò a essere adolescente con un mondo adolescente e ineffabile, e giovane con un mondo giovanile di drammatica e pericolante liberazione, e adulto col farsi adulto di quel mondo, in tutti gli esseri fraterni di tutte le Lucanie di ogni angolo della terra.

Per questo, il Cristo si è fermato a Eboli fu dapprima esperienza, e pittura e poesia, e poi teoria e gioia di verità (con Paura della libertà), per diventare infine e apertamente racconto, quando una nuova analoga esperienza, come per un processo di cristallizzazione amorosa, lo rese possibile; e si svolse poi, nei libri successivi, mutandosi nell'autore l'animo, e il corpo, e le parole, insieme al mutarsi degli uomini in un tempo diventato fulmineo di nuova coscienza. Questo processo non e, non e mai stato, d. i identificazione con un dato, di fuga nell'oggettività, ma e piuttosto la continua distinzione dell'amore. È, come disse Rocco Scotellaro, a me sopra tutti carissimo, nelle pagine dell'Uva puttanella dove egli racconta la lettura di questo libro, di questo «memoriale», ai diciotto compagni di cella nel carcere di Matera, la somiglianza, e l'amore della propria somiglianza. Per questo, il Cristo si è fermato a Eboli mi pare oggi il primo momento di una lunga storia, che è continuata modificandosi, e continua diversa, in me e nelle cose e nei fatti e nei cuori degli uomini, e in tutti i libri che ho scritto, e in quelli che scrivo e scriverò (e che tu pubblicherai), fino a quando sarò capace di vivere la contemporaneità e la coesistenza e l'unità di tutto il reale, e di intendere, fuori della letteratura, il senso di un gesto, di un volto, e della parola, come semplice, poetica libertà. Roma, giugno 1963.

CARLO LEVI


L'AUTORE ALL'EDITORE Carissimo Giulio, il mio libro Cristo si è fermato a Eboli comincia, tu lo sai, con le parole: «Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si usa chiamare la Storia». Ora, di nuovo molti anni sono passati, di guerra e di storia, e di mutamenti delle cose e degli uomini, anni così gremiti e densi e rinnovatori che non possono descriversi con numeri, perché ogni loro momento vivo è stato, come avviene delle cose reali, eterno. E se tu dài oggi nuova veste a questo libro, diciotto anni dopo la tua prima edizione, quella nella rara carta grigiastra del 1945, quando la tua Casa editrice rinasceva dopo la forzata interruzione della guerra, e la morte di Leone Ginzburg, e la dispersione di tutti noi, o venti anni dopo il giorno in cui ne avevo scritto, senza sapere che cosa sarebbe avvenuto poi; quelle prime parole, e avevo da esse cominciato a svolgere, sul filo della memoria, non solo gli avvenimenti del passato, ma la contemporaneità infinita e poetica dei tempi e dei destini, in una casa di Firenze, rifugio alla morte feroce che percorreva le strade della città tornata primitiva foresta di ombre e di belve, questi diciotto, questi venti anni, sono forse un'epoca, o forse un breve momento. Ogni momento, allora, poteva essere l'ultimo, era in sé l'ultimo e il solo: non v'era posto per ornamenti, esperimenti, letteratura: ma soltanto per la verità reale, nelle cose e al di là delle cose. E per l'amore, sempre troncato e indifeso, ma tale da tenere insieme, lui solo, un mondo che, senza di esso, si sarebbe sciolto e annullato. La casa era un rifugio: il libro una difesa attiva, che rendeva impossibile la morte. Non l'ho mai più riletto, intero, poi: del tutto obiettivato, mi è rimasto nella mente come un'immagine giovanile di pura energia, indistruttibile dalle cose su cui si volge, melanconico e amoroso, il giudizio e lo sguardo. Chi era dunque quell'io, che si aggirava, guardando per la prima volta le cose che sono altrove, nascosto come un germoglio sotto la scorza dell'albero, tra quelle argille deserte, nella immobilità secolare del mondo contadino, sotto l'occhio fisso della capra? Era forse anch'esso un altro, un giovane ignoto e ancora da farsi, che il caso e il tempo avevano spinto laggiù, sotto quei gialli occhi animali, quei neri occhi di donne, di uomini, di fanciulli (occhi neri che i pianti d'infinite vigilie fatto han vuoti, guardate nel profondo dell'anima) perché si trovasse nell'altrove, nell'altro da sé, perché scoprisse la storia fuori della storia, e il tempo fuori del tempo, e il dolore prima delle cose, e se stesso, fuori dello specchio dell'acque di Narciso, negli uomini, sulla terra arida? O era forse quello stesso di oggi, nel suo primo, celato, giovanile atto di fiducia?

Certo, l'esperienza intera che quel giovane (che forse ero io) andava facendo, gli rivelava nella realtà non soltanto un paese ignoto, ignoti linguaggi, lavori, fatiche, dolori, miserie e costumi, non soltanto animali e magia, e problemi antichi non risolti, e una potenza contro il potere, ma l'alterità presente, la infinita contemporaneità, l'esistenza come coesistenza, l'individuo come luogo di tutti i rapporti, e un mondo immobile di chiuse possibilità infinite, la nera adolescenza dei secoli pronti ad uscire e muoversi, farfalle dal bozzolo; e l'eternità individuale di questa vicenda, la Lucania che è in ciascuno di noi, forza vitale pronta a diventare forma, vita, istituzioni, in lotta con le istituzioni paterne e padrone, e, nella loro pretesa di realtà esclusiva, passate e morte. La sola grande fortuna di quel giovane fu di essere (per età, per formazione, per carattere, per impossibilità di accettare un mondo negativo) così libero dal proprio tempo, così da esso esiliato, da poter essere veramente un contemporaneo: e non soltanto un contemporaneo della contemporaneità illimitata, ma, nei fatti, un contemporaneo degli uomini nuovi, dei piccoli, degli oscuri con cui ebbe la ventura di vivere e di formarsi e conoscersi. Così egli si trovò a essere adolescente con un mondo adolescente e ineffabile, e giovane con un mondo giovanile di drammatica e pericolante liberazione, e adulto col farsi adulto di quel mondo, in tutti gli esseri fraterni di tutte le Lucanie di ogni angolo della terra.

Per questo, il Cristo si è fermato a Eboli fu dapprima esperienza, e pittura e poesia, e poi teoria e gioia di verità (con Paura della libertà), per diventare infine e apertamente racconto, quando una nuova analoga esperienza, come per un processo di cristallizzazione amorosa, lo rese possibile; e si svolse poi, nei libri successivi, mutandosi nell'autore l'animo, e il corpo, e le parole, insieme al mutarsi degli uomini in un tempo diventato fulmineo di nuova coscienza. Questo processo non e, non e mai stato, d. i identificazione con un dato, di fuga nell'oggettività, ma e piuttosto la continua distinzione dell'amore. È, come disse Rocco Scotellaro, a me sopra tutti carissimo, nelle pagine dell'Uva puttanella dove egli racconta la lettura di questo libro, di questo «memoriale», ai diciotto compagni di cella nel carcere di Matera, la somiglianza, e l'amore della propria somiglianza. Per questo, il Cristo si è fermato a Eboli mi pare oggi il primo momento di una lunga storia, che è continuata modificandosi, e continua diversa, in me e nelle cose e nei fatti e nei cuori degli uomini, e in tutti i libri che ho scritto, e in quelli che scrivo e scriverò (e che tu pubblicherai), fino a quando sarò capace di vivere la contemporaneità e la coesistenza e l'unità di tutto il reale, e di intendere, fuori della letteratura, il senso di un gesto, di un volto, e della parola, come semplice, poetica libertà. Roma, giugno 1963.

CARLO LEVI