M10: Una linea tracciata nelle tenebre: verso la dittatura
Giacomo Matteotti Roma, 2 dicembre 1921 Camera dei deputati
Il fascismo non è più un fenomeno passeggero, il fascismo durerà.
Quando Giacomo Matteotti prende la parola il 2 dicembre per denunciare per la terza volta al Parlamento italiano il terrore fascista nel Polesine, nell'aula di Montecitorio riecheggiano ancora le promesse dell'onorevole Mussolini pronunciate il giorno prima. I fascisti hanno ritrattato il patto di pacificazione già il 14 novembre dopo che i loro assalti sono stati respinti dal proletariato nelle vie di Roma consentendo, però, a Mussolini di sciorinare ai parlamentari l'elenco dei suoi caduti. Matteotti esordisce dichiarando che avrebbe preferito rinunciare a parlare ma non può esimersi dal dar voce al grido di dolore che si leva dalle sue terre. Il tono del suo esordio è più pacato rispetto alle denunce precedenti, una nota malinconica lo smorza. fin dall'estate la sua opposizione al fascismo ha mutato rotta, orientata da una nuova stella d'intransigenza, più duttile, meno incandescente, una stella di redenzione ma anche una stella adulta, realista. Nei giorni della firma del trattato di pacificazione Matteotti si è adoperato per la costituzione di un blocco antifascista che unisse socialisti e popolari, poi si è speso per l'ipotesi di una collaborazione socialista con il governo Bonomi a difesa delle istituzioni democratiche. Al convegno del suo partito del 15 ottobre ha implorato i compagni di abbandonare dogmi e cincischiamenti, li ha pregati di aprirsi “all'immenso mondo di lavoratori che è lì fuori e aspetta i fatti”. Ora, nell'aula di Montecitorio, Giacomo Matteotti si trova per la prima volta a denunciare la violenza fascista alla presenza de- gli stessi fascisti, eletti in aprile grazie a Giolitti. Nonostante la nuova ragionevolezza delle sue parole, e a dispetto della piega amara sulla bocca mentre le pronuncia, il suo rigoroso puntiglio gli impone di inchiodare ai fatti le mistificazioni. Il patto, per gli squadristi delle province, è sempre stato “uno straccio di carta”; le grandi spedizioni punitive sono cessate, è vero, ma non per osservanza del patto ma perché si erano ritorte contro gli assalitori. Le piccole spedizioni, quelle contro i villaggi, le case dei contadini, non sono mai cessate, le squadre le rivendicano apertamente nei loro bollettini di guerra, le bande girano armate di bastoni, con la divisa di morte, con i revolver, moschetti, bombe, benzina, e restano, come sempre, impunite. Ci sono dei morti fascisti, è vero, ma sono morti assaltando le case. I morti socialisti, invece, sono caduti difendendole. Il potere è in mano ad associazioni terroristiche, a organizzazioni criminali, ad assassini professionisti. Di fronte a queste parole, le interruzioni, il vociare, i rumori che hanno frammentato il discorso dell'onorevole socialista fin dal principio sfociano in protesta aperta. Cesare De Vecchi salta sullo scranno urlando che non può sopportare quegli insulti. Il presidente aggiorna la seduta.
Quando dopo dieci minuti, alle 17.00, la seduta riprende, Matteotti riprova con la mitezza. Ma le parole “delinquente”, “assassini”, “criminali” risuonano ancora nella sua gola e, allora, riprendono anche le interruzioni, le urla, la bagarre. Alla fine, la passione della giustizia cede ancora alla malinconia:
“Per lunghi mesi io ho predicato anche ai miei compagni di subire tutte le violenze, di non reagire. Ho fatto perfino, devo confessarlo, l'apologia della viltà, perché anche la viltà può essere un eroismo. Ma dopo lunghi mesi di sacrificio, di attesa, di sopportazione sento oramai, onorevole Bonomi, e onorevoli colleghi della camera, che non è più possibile continuare così e dobbiamo deciderci a cambiare atteggiamento.” Il mutamento imposto agli uomini di buona volontà dalla violenza fascista è, secondo Matteotti, drastico, radicale, luttuoso. Bisogna malinconicamente congedarsi da ciò in cui si è creduto, da ciò che si è stati e si è sperato di poter diventare. Bisogna convincersi che umanesimo e rivoluzione, civiltà e riscatto non sono compatibili. La politica, stella della redenzione per generazioni di socialisti, oggi si brutalizza. O ci si adegua, o si soccombe.
Il giorno seguente, a replicare a Matteotti, dai banchi della destra si alza un uomo che a soli trent'anni è già una leggenda. Aldo Finzi – il demoniaco pilota dell'auto di Mussolini nel duel- lo con Ciccotti – è polesano come Matteotti – vive a Fratta, a soli quindici chilometri da Badia – e come Matteotti è figlio di un ricco proprietario terriero. Lui, però, a differenza del deputato socialista, non ha ripudiato la propria casta. Sontuoso, spavaldo, talentuoso, pioniere delle corse automobilistiche, volontario di guerra, è stato decorato più volte al valore. Finzi, soprattutto, ha volato su Vienna con D'Annunzio. Il 9 agosto del millenovecentodiciotto, mentre Matteotti era confinato in Sicilia per la sua propaganda neutralista, si è messo alla guida di uno dei dieci monoposto che alle sei del mattino decollarono da Padova, rag- giunsero la capitale austriaca e, inondandola di volantini propagandistici dal cielo, entrarono nella leggenda. Matteotti e Finzi, insomma, potrebbero essere fratelli, cresciuti nella stessa casa, soltanto che uno ha scelto di uscire verso il mondo dal portone padronale, l'altro dall'ingresso sul retro riservato alla servitù. L'assalto retorico di Finzi a Matteotti è frontale, simmetrico, speculare. A portare la violenza in Polesine è stata la propaganda d'odio dei socialisti, il veleno della loro demagogica irresponsabilità. L'argomento è risaputo, quasi scontato oramai, ma, provenendo da quella voce gemellare, ha l'effetto di rovesciare completamente l'analisi, di ritorcere l'accusa: “Non è colpa del fascismo di essere nato nei nostri paesi, più che altrove; siete stati proprio voi, apostoli della fratellanza umana, che instaurando un regime di terrore avete obbligato tutti gli onesti, anche i più pacifici caratteri, a risorgere alla fine, perché la situazione nostra era fissata nella scelta tragica: o difendersi o morire.” Le cronache parlamentari non registrano una replica di Matteotti ad Aldo Finzi. Quello stesso giorno, invece, Giacomo scrive a sua moglie, con fierezza e con una punta di civetteria, riferendosi a se stesso in terza persona: “Ieri battaglia grossa. Immaginati che si erano messi in testa di far tacere il Gian, con tutto quello che deve già altrimenti mandar giù, della povera gente martoriata del Polesine. Ma hanno dovuto sentirmi fino all'ultimo, implacabilmente. Sembravano morsi dalle vipere. Ma quella gente non sente né il rimorso né alcun sentimento gentile.”
Dieci giorni dopo, la replica di Velia, costretta ora a crescere anche il secondogenito Matteo da sola, nascosta, lontana da un padre braccato, non porta nessuna traccia dell'euforia adrenalinica leggibile nelle parole di suo marito: “Quando considero questi anni che sono pure i migliori, passati così senza un po' di luce, rimango proprio a considerare che la vita della donna è assai meschina, e mi si dilegua qualsiasi lontano desiderio come cosa vana.” Benito Mussolini 28 dicembre 1921
Ho gli occhi bendati. Sto supino nel letto, col torso immobile, col capo riverso, un poco più in basso dei piedi. La stanza è muta di ogni luce. Scrivo nell'oscurità. Traccio i miei segni nella notte che è solida contro l'una e l'altra coscia come un'asse inchiodata. Imparo un'arte nuova. Il mondo culturale è in fibrillazione per la pubblicazione del Notturno, il nuovo libro di Gabriele D'Annunzio. Il Vate lo ha scritto nel millenovecentosedici mentre giaceva immobilizzato a letto e temporaneamente accecato da un incidente aereo accaduto durante una delle sue mirabolanti imprese di guerra. Lo ha annotato nelle tenebre, parola per parola, su diecimila cartigli, ogni frase un cartiglio. Il mondo culturale s'interroga se questa prosa violentemente visionaria di un cieco provvisorio, eppure a suo modo scarna, secca come un osso, come un gariglio di noce, come la morte secca su cui si affaccia, possa essere considerata un capolavoro minore del nostro poeta maggiore, oppure a sua volta un incidente. Ma il mondo culturale ha questo di bello: come il suo Vate su cui s'interroga, è cieco al corso del mondo e ne viene generosamente ricambiato. Oltre alla nuova edizione del Notturno dell'editore milanese Treves, autografata dal poeta, in questa fine d'anno Mussolini riceve un secondo testo su cui riflettere. Si tratta di un progetto per l'organizzazione militare delle squadre fasciste stilato dal generale Asclepio Gandolfo su incarico della neonata direzione nazionale del partito. Gandolfo ha concepito l'esercito delle milizie fasciste sul modello della legione romana, suddividendole in due schiere: Principi e Triari. Le squadre saranno composte da 20 a 50 uomini, quattro squadre formeranno una centuria, quattro centurie una coorte e le coorti, da tre a nove, una legione. Questa, comandata da consoli, avrà come insegna l'aquila romana e i suoi alfieri porteranno il Fascio littorio sormontato dalla stella d'Italia. Tutti indosseranno la divisa uniforme ma ciascuna legione, previa autorizzazione, sarà libera di adottare piccoli fregi e distintivi propri. Tutti i gradi saranno elettivi perché nell'ambito regionale le squadre godranno di massima autonomia. Il fascismo, infatti, è ancora, per il momento, una aggregazione eterogenea di guerrieri che eleggono il loro capo, non di soldati sottoposti a ordini. Il capo politico e quello guerriero coincide- ranno, perciò, nella stessa persona. Il generale Asclepio sottolinea la difficoltà di conciliare l'elettività dei gradi con il principio gerarchico ma la stella polare, su questo sono tutti d'accordo, è stella a tre punte: militarizzazione, disciplina, gerarchia. La politica – anche su questo non ci può essere dubbio – è una guerra civile contro i propri avversari presentati come nemici della nazione. Fanno tutti così dalla fine del primo conflitto mondiale, tutti quanti, sia fascisti sia socialisti, solo che gli altri si limitano a comizi di protesta e a una guerra di simboli mentre il fascismo va oltre. Evidentemente, per i fascisti la guerra non è mai finita.
Un soffio misterioso alza dalla distesa abbagliante rilievi di for- me umane e bestiali. Ho davanti a me una parete rigida di roccia rovente scolpita d'uomini e di mostri. La difficoltà non è nella prima riga, ma nella seconda e nelle seguenti.
Anche il presidente del Consiglio Bonomi si è finalmente accorto che il pronostico è questo. Poveraccio, fin dall'estate si di- batte nelle convulsioni dello Stato liberale: i progetti per imbrigliare le squadre non valgono nulla, i carabinieri fascistizzano, il Consiglio di disciplina li assolve, la magistratura fa cilecca. Il 15 dicembre Bonomi ha ritentato con una circolare prefettizia che equiparava il manganello alle armi sottoposte a licenza e includeva i gruppi paramilitari fascisti tra le formazioni illegali. È stato frustrato nel giro di quarantotto ore dalle disposizioni emanate da Michele Bianchi con le quali il neoeletto segretario generale del Pnf affermava che sezioni del partito e squadre di combattimento formano un insieme inscindibile. La direttiva è stata sfacciatamente pubblicata su Il Popolo d'Italia. Uno Stato degno di questo nome, di fronte al segretario di un partito con deputati in Parlamento che dichiari di aver costituito una milizia armata, li avrebbe fatti arrestare tutti. Im- mediatamente. Ma quello Stato non c'è più. Bonomi, infatti, si è limitato a diramare il 21 dicembre una seconda circolare ai prefetti in cui lamentava che molte delle sue disposizioni in materia di ordine pubblico ancora non erano state fatte osservare. In particolare, il divieto per i comuni cittadini di usare quotidianamente nei viali del passeggio domenicale bastoni acuminati e mazze ferrate.
Non ho difesa di palpebre né altro schermo. Il tremendo ardore è sotto la mia fronte, inevitabile. Il giallo s'arrossa, il piano si travaglia. Tutto diventa irto e tagliente.
Michele Bianchi è l'uomo giusto per la segreteria del Partito fascista. Calabrese, figlio di borghesi, Bianchi è stato prima socialista, sindacalista rivoluzionario, antimilitarista, anticlericale e antimperialista, poi, come Mussolini, nel giro di una notte, è passato con lo stesso ardore all'interventismo nella convinzione che la guerra mondiale avrebbe condotto alla rivoluzione proletaria. Qualunque posizione abbia adottato nella sua vita, Michelino l'ha sempre tenuta con un fanatismo implacabile, lo stesso che applica a fumare una sigaretta dopo l'altra. Fisicamente in- significante, politicamente acuto, non sopporta le divise, indossa la camicia nera sugli abiti borghesi e sa di essere deriso per il suo aspetto funereo. Espettorazione striata di sangue, febbriciattola costante, sudorazione notturna, perdita di peso, la diagnosi è lampante. Tubercolotico, Michelino Bianchi si porta la morte ad- dosso. Ha solo trentadue anni ma non gli resta molto da vivere. Lo sanno tutti, lo può capire chiunque lo veda apparire, perfino lo sconosciuto che, in fondo al corridoio, senta la fine annunciata nei colpetti stizzosi della sua tosse secca. È questo destino di morte lampante e imminente a fare di lui il segretario perfetto per il Partito nazionale fascista. Nessuna ambizione personale di potere, dedizione fanatica alla rivoluzione. E quell'autorevolezza inappellabile che ti possono conferire soltanto i rantoli della necrosi polmonare. Tutto è buio. Sono in fondo a un ipogeo. Sono nella mia cassa di legno dipinto, stretta e adatta al mio corpo come una guaina, come se veramente l'imbalsamatore avesse compiuta su me la sua opera. Il mio compagno è morto, è sepolto, è disciolto. Io sono vivo ma esattamente collocato nel mio buio come lui nel suo.
L'anno nuovo, insomma, comincia sotto i migliori auspici. Il fondatore dei Fasci lo ha detto apertamente a conclusione del suo discorso parlamentare del primo dicembre: la dittatura è una carta grossa, che si gioca una sola volta. E, altrettanto aperta- mente, lo ha scritto sul suo giornale: la dittatura comporta rischi terribili ma non è affatto detto che venga un periodo di maggiori libertà, di maggior democrazia. Le suffragette hanno, forse, fatto il loro tempo. Dal governo dei molti e di tutti è probabile che si torni al governo di pochi o di uno solo. Nell'economia l'esperi- mento del governo dei molti o di tutti è già fallito. In Russia si è tornati ai dittatori di fabbrica. Il socialismo, però, ha commesso l'errore di garantire un minimo di felicità agli uomini: litro, pollo, donna e cinema. Ma nella vita la felicità non esiste. Il fascismo non commetterà lo stesso grossolano errore di prometterla.
In ogni caso, la politica non può tardare a seguire l'economia. Le masse già vagheggiano il dittatore.
La gloria s'inginocchia e bacia la polvere. Usciamo. Mastichiamo la nebbia. La città è piena di fantasmi. Gli uomini camminano senza rumore, fasciati di caligine. I canali fumigano. Qualche canto d'ubriaco, qualche vocìo, qualche schiamazzo. Ho messo la bocca nella pienezza della morte. Il mio dolore s'è saziato nella bara come in una mangiatoia. Non ho poi potuto sopportare altro nutrimento. E tremo davanti a questa prima linea che sto per tracciare nelle tenebre.
Ti mando il Popolo d'Italia con un articolo di Mussolini, il quale annunzia la necessità di una dittatura, anzi di un dittatore – che è poi lui in persona – per salvare l'Italia. Lettera di Anna Kuliscioff a Filippo Turati, 24 novembre 1921