M03 Gli amanti: Benito e Margherita
Benito Mussolini Milano, metà maggio 1919
Il cappello. È solo una banale bombetta comprata da Borsalino in Galleria per 40 lire eppure quella calotta di feltro nero attira il suo sguardo come un magnete calamita la limatura di ferro.
I rintocchi del campanile di San Gottardo riempiono l'intera piccola camera miserabile già satura degli odori acri del sesso. La donna giace riversa sulla schiena, le cosce ancora divaricate, accasciata eppure sovrana nella propria nudità spudorata. La campana batte le ore e i quarti. Lui torna a guardare il cappello.
Ha già quarant'anni ma è ancora bella. Gli occhi grigioverdi, i capelli biondo ramato, i seni abbondanti e penduli della madre che ha allattato. Da vestita è di certo la cosa più elegante e raffinata che il portiere di quel tugurio abbia mai visto entrare nell'albergo a ore in cui si guadagna da vivere. Adesso però lei è nuda, sono le sei e quarantacinque – nove rintocchi del campanile di San Gottardo – e lei revisiona ad alta voce il discorso che il suo amante dovrà tenere il 22 di maggio al Teatro Verdi di Fiume.
L'Italia ha una missione nel Mediterraneo e nell'Oriente. Basta dare uno sguardo alla carta geografica per comprendere la verità assiomatica di quest'asserzione. A eguale distanza fra l'equatore e il polo, l'Italia occupa il centro del Mediterraneo, che è il più importante bacino della terra. La configurazione, lo sviluppo litoraneo, la correttezza di linee la mettono in una condizione privilegiata per cui l'Italia è destinata a essere la dominatrice del Mediterraneo; ed è certo che, riconquistato dopo duemila anni il grande vallo della muraglia alpina, essa si riaffaccerà al mare da cui in ogni tempo le vennero prosperità e grandezza. L'Africa è la sua seconda sponda. Si può dire che questa necessità mediterranea rappresenta il diritto di quaranta milioni d'italiani di avere il campo libero della loro naturale espansione. Ma bisogna essere forti. L'ora dell'Italia non è ancora suonata ma deve fatalmente venire. Nell'ordine interno l'Italia deve prima conquistare se stessa. Ecco il compito del fascismo. Un più grande imperiale destino. Una tradizione millenaria chiama l'Italia sui lidi del continente nero.
Lei approva con la testa, le piace la parola “dominatrice”. Poi elimina alcune espressioni con un tratto risoluto di penna e conclude che lui deve incontrare Gabriele D'Annunzio. L'aria nella stanza si fa irrespirabile. Ancora il cappello.
Margherita Sarfatti e Benito Mussolini si sono conosciuti di persona nel febbraio del millenoventotredici quando lui, appena trentenne, era stato nominato direttore dell'Avanti!. Lei, che teneva la critica d'arte per il giornale socialista, si era presentata dimissionaria al nuovo direttore come si faceva abitualmente a ogni cambio di linea politica. Di quel primo incontro, lei avrebbe ricordato i suoi occhi fanatici, gialli, l'energia animalesca, la sua magrezza. Le aveva dato l'impressione di un uomo che lotti per tenere chiusa una porta che vuole a tutti i costi aprirsi. Aveva, però, già sentito parlare di lui in precedenza. Il primo a nominarglielo era stato suo marito, Cesare Sarfatti, insigne avvocato, esponente della corrente riformista del socialismo milanese. Il 13 luglio del millenovecentododici Cesare aveva scritto alla moglie, rimasta a casa, una nota entusiastica da Reggio Emilia, dove era in corso il congresso del Partito socialista: “Benito Mussolini. Segnati questo nome. È lui il prossimo uomo.” E Margherita se lo era segnato.
A Reggio Emilia, il giovane, oscuro delegato della sezione di Forlì si era affacciato alla tribuna cupo come un boia, giacca e cravatta nera, il viso pallido, i vestiti logori, il corpo ossuto, gli occhi spiritati, la barba di tre giorni, e aveva parlato una lingua che non si era mai udita prima. Frasi spezzate, perentorie, martellanti, quasi sempre precedute da un io ipertrofico, cadenzate da silenzi minacciosi, significati inequivocabili e militanti, asserzioni isteriche e memorabili. Benito Mussolini, oscuro delegato della sezione provinciale di Forlì, spazzava via in pochi minuti secoli di eloquenza rotonda e colta, gesticolava come un cinese, malmenava il cappello a tesa larga da mazziniano, bestemmiava Dio dalla tribuna del popolo. Il pubblico si era diviso a metà: i ciechi e gli arroganti avevano riso di lui come di una macchietta, tutti gli altri ne erano rimasti affascinati e sgomenti.
Il bersaglio della sua furia erano i vecchi, signorili, bonari notabili dell'ala riformista. Ecco cos'era accaduto: un muratore romano aveva sparato una revolverata al re e loro, guidati da Leonida Bissolati, grande vecchio del socialismo moderato, si erano macchiati della colpa di far visita al sovrano, salendo alla reggia in cappello molle e guanti paglierini. Quel Mussolini, allora, si era messo in maniche di camicia e li aveva spinti tutti al muro. Li aveva percossi in pieno volto. “Non posso approvare il vostro gesto di cortigiano. Ditemi, Bissolati, quante volte siete stato a rendere omaggio a un muratore caduto dall'impalcatura? Quante volte a un birocciaio travolto dal proprio carro? Ebbene? Che cos'è un attentato al re, se non un infortunio sul lavoro?” Applausi. “Per un socialista un attentato è un fatto di cronaca o di storia, secondo i casi. Le doti personali del re sono fuori questione. Per noi il re è un uomo, soggetto come tutti gli altri alle bizzarrie comiche e tragiche del destino. Perché commuoversi e piangere per il re, solo per il re? Tra l'infortunio che colpisce un re e quello che abbatte un operaio, il primo ci può lasciare indifferenti. Il re è un cittadino inutile per definizione.” Applausi. Evviva. Trionfo.
A fine giornata, Bissolati, Bonomi, Cabrini e Podrecca – i capi dell'ala moderata – saranno espulsi dal partito; Benito Mussolini, il rivoluzionario selvaggio venuto dalla provincia, sarà innalzato a suo nuovo idolo; ancora pochi mesi e Margherita, la affascinante figlia della grande borghesia ebrea veneziana, cresciuta a Palazzo Bembo sul Canal Grande, sposa dell'avvocato Sarfatti, intellettuale coltissima, paladina del socialismo, rentier da 40.000 lire l'anno, raffinato critico d'arte, protettrice di Boccioni, mecenate delle futuribili avanguardie artistiche, sarà divenuta la sua amante.
Adesso, però, non è più il millenovecentododici. Sono trascorsi sette anni e una guerra mondiale. I socialisti hanno addirittura espulso dal partito quel Benito Mussolini che prima della guerra ne era stato l'astro nascente, hanno bollato con un marchio di infamia il traditore passato all'improvviso dal fronte pacifista a quello interventista, hanno abbattuto nella vergogna il loro giovane idolo rivoluzionario come lui aveva abbattuto i vecchi patriarchi riformisti. Dopo quattro anni di guerra costantemente avversata dai socialisti ortodossi, il primo di maggio, la classe operaia che odia reduci e interventisti ha celebrato con manifestazioni grandiose la Festa del lavoro. Le masse, inebriate dalla loro potenza, affluiscono gigantesche sotto le bandiere rosse. L'incendio dell'Avanti!, appiccato dai primi fascisti, sembra non averle nemmeno scalfite. In meno di un mese hanno raccolto più di un milione per la ricostruzione. Per Mussolini, invece, quell'incendio ha bruciato tutti i ponti gettati verso i vecchi compagni. Ogni tentativo di creare una costituente delle fazioni interventiste di sinistra è fallito. E poi anche i Fasci di combattimento sono stati un fiasco. Poche centinaia di adepti, dispersi in tutta Italia.
In certe serate di nebbia fredda lui deve camminare su e giù per via Monte di Pietà in attesa che arrivino Marinelli o Pasella ad aprire la porta della sezione. Trockij in Russia in pochi mesi ha messo in piedi una gigantesca Armata Rossa di operai socialisti e lui da settimane non riesce nemmeno a mettere su un turno di squadre a difesa del giornale. E poi il giornale che continua a perdere copie. Morgagni, l'amministratore, fa i salti mortali ma a volte non riesce nemmeno a pagare la carta. E poi c'è il presidente degli Stati Uniti d'America che alla conferenza di pace di Parigi si ostina a umiliare l'Italia. E poi c'è quella pazza femmina vendicativa di Ida Dalser che lo infanga pubblicamente. Ha dato al figlio nato dalla loro relazione clandestina il suo nome – Benito Albino – e adesso ha preso 700 lire da Frassati, il direttore de La Stampa di Torino, per accusarlo di aver fondato nel millenovecentoquindici Il Popolo d'Italia grazie all'oro dei francesi. E poi c'è Bianca Ceccato, la “piccina”, che vuole far la fidanzatina. Si è licenziata da segretaria al giornale e piange perché le danno della mantenuta. Lui prima la portava in camere ammobiliate in via Eustachi ma adesso lei lo costringe a gite romantiche. Sono stati sul lago di Como, ad aprile sono stati a Venezia. Hanno scattato una foto ricordo in piazza San Marco, con i piccioni sulla testa. I portieri d'albergo la credono sua figlia. Ha diciannove anni. Un visino da bambola sotto la cuffietta di pizzo. Dice le orazioni prima di andare a letto.
“Devi assolutamente incontrare D'Annunzio.” Margherita Sarfatti gli dice che il Vate è un suo caro amico, che può presentarglielo lei. La padronanza di quella donna riempie la stanza: i dinamismi del secolo, la bohème di Parigi, la città che sale, i mondariso del novarese che dopo diciassette giorni di sciopero ottengono le otto ore di lavoro, Umberto Boccioni, il più grande pittore della sua generazione, volontario nel Battaglione nazionale ciclisti, che muore al fronte a soli trentatré anni per un banale incidente. Quel corpo osceno di donna padrona li riassume tutti, il secolo vibra nei suoi seni, nel suo ventre, nelle sue cosce nude, spudorate. Lui, Benito Mussolini da Predappio, figlio di Alessandro, contro quelle cosce da signora ci sbatte come la mosca impazzita sbatte sul vetro del bicchiere capovolto. Lui le entrerebbe dentro con un cavallo. E questo è tutto. Non sa altro.
L'odore nella stanza si è fatto terribile. San Gottardo batte le sette. Sette rintocchi perfetti.
Lui si alza, stringe il nodo alla cravatta, poi lascia che la sua persona fluisca nella corrente magnetica che lo attrae verso la bombetta. No, nessuna donna potrà vantarsi di essere uscita soddisfatta dalla sua intimità. Non appena le ha possedute – cosa di per sé rapidissima – lui sente il bisogno prepotente di rimettere il cappello sulla testa.
Mussolini Prof. Benito fu Alessandro, nato a Predappio il 29.7.1883, residente a Milano in Foro Bonaparte 38, socialista rivoluzionario, schedato, maestro elementare abilitato ad un insegnamento in scuole secondarie, fu prima segretario della Camera del lavoro di Cesena, Forlì e Ravenna, poi dal 1912 direttore del giornale Avanti! al quale impresse forma violenta, suggestiva ed intransigente. Nell'ottobre del 1914, messosi in contrasto con la direzione del Partito socialista italiano perché fautore della neutralità attiva dell'Italia nella guerra delle nazioni contro la tendenza della neutralità assoluta, si ritirò il 20 di detto mese dalla Direzione dell'Avanti!.
Iniziò quindi il 15 novembre successivo la pubblicazione del giornale Il Popolo d'Italia, col quale sostenne, in antitesi all'Avanti! e con aspra polemica contro tale giornale e i suoi principali ispiratori, la tesi dell'intervento dell'Italia nella guerra contro il militarismo degli Imperi Centrali.
Fu per tale fatto accusato dai compagni socialisti d'indegnità morale e politica e fu deliberata la di lui espulsione…
Ebbe per amante anche la trentina Dalser Ida… dalla quale ebbe un figlio nel novembre 1915 riconosciuto dal Mussolini con atto dell'11 gennaio 1916… Abbandonata da Mussolini sparlava con tutti di lui, dicendo anche di averlo aiutato finanziariamente, senza però mai fare riferimento ai suoi precedenti politici… Mentre era internata a Caserta, essa a un funzionario di questo Ufficio (febbraio 1918) accusò Mussolini di essersi venduto alla Francia tradendo gli interessi del proprio Paese ed al riguardo riferì di aver saputo che il 17 gennaio 1914 ebbe luogo a Ginevra un colloquio tra il Mussolini e l'ex presidente del Consiglio francese Caillaux, in seguito al quale quest'ultimo avrebbe versato a Mussolini la somma di un milione di lire…
La Dalser però è una nevrastenica e una isterica esaltata dal desiderio di vendetta contro Mussolini e le sue dichiarazioni non meritano fede.
Tuttavia dalle indagini fatte è risultato che effettivamente non alla data indicata dalla Dalser ma il 13 novembre 1914 (si noti: due giorni prima dell'apparizione del primo numero del Popolo d'Italia) il Benito Mussolini si trovava a Ginevra, precisamente all'Hotel d'Angleterre.
Rapporto dell'ispettore generale di pubblica sicurezza Giovanni Gasti, giugno 1919