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Anna Karenina, Parte Prima: Capitolo V

Parte Prima: Capitolo V

Stepan Arkad'ic a scuola aveva studiato bene, grazie alle sue buone capacità, ma, pigro e svagato, aveva finito gli studi tra gli ultimi. Tuttavia, pur conducendo una vita sempre scapestrata, in età ancor giovane, con un titolo modesto, aveva ottenuto il posto ragguardevole e ben retribuito di capo di uno degli uffici amministrativi di Mosca. Aveva avuto questo posto per mezzo del marito di Anna, Aleksej Aleksandrovic Karenin, il quale occupava uno dei più alti gradi nel ministero a cui apparteneva l'ufficio; ma se Karenin non avesse designato suo cognato a quel posto, Stiva Oblonskij, per mezzo di un centinaio di alti personaggi, fratelli, sorelle, prozii, zii, zie, avrebbe avuto quel posto o altro equivalente con quei seimila rubli di stipendio che gli erano necessari, perché i suoi affari, malgrado la considerevole proprietà della moglie, andavano male. Una buona metà della società di Mosca e Pietroburgo era in relazioni di parentela o di amicizia con Stepan Arkad'ic. Egli era nato nella cerchia di coloro che erano o erano in seguito diventati i potenti di quel mondo. Un terzo dei funzionari di stato, i vecchi, erano amici di suo padre e lo avevano visto nascere; un altro terzo gli davano del «tu» e un terzo ancora erano suoi buoni conoscenti. Pertanto, i dispensatori di beni terreni sotto forma di posti, appalti, concessioni e cose simili, erano tutti amici suoi e non avrebbero mai lasciato fuori uno dei loro. Così Oblonskij non aveva dovuto brigare per ottenere un posto vantaggioso; gli era bastato non rifiutare, non avere invidie, non leticare, non offendersi, cose tutte ch'egli neppure faceva per quella bonarietà che gli era propria. Gli sarebbe parso ridicolo se gli avessero detto che non avrebbe ottenuto un posto retribuito con lo stipendio che gli era necessario, dal momento che non pretendeva niente di eccezionale, ma voleva solo quello che avevano gli altri suoi coetanei quando, non peggio di chiunque altro, egli era in grado di adempiere una funzione di tal genere.

A Stepan Arkad'ic volevano bene tutti quelli che lo conoscevano non solo per quel suo carattere buono e gioviale e per la sua indubbia onestà, ma perché in quel suo bell'aspetto luminoso, negli occhi splendenti, nelle sopracciglia e nei capelli neri, nel colorito bianco e rosso del viso vi era qualcosa che agiva in modo cordiale e festoso sul fisico delle persone che lo incontravano. «Oh, Stiva! Oblonskij! Eccolo!» dicevano quasi sempre con un sorriso di gioia, incontrandolo. E anche se talvolta ci si rendeva conto che, dopo una conversazione con lui, non succedeva nulla di particolarmente gioioso, l'indomani, due giorni dopo, tutti di nuovo si rallegravano nell'incontrarlo, proprio allo stesso modo. Occupando già da tre anni il posto di capo di uno degli uffici amministrativi di Mosca, Stepan Arkad'ic aveva conquistato, oltre la simpatia, la stima dei colleghi, dei dipendenti, dei superiori, e di tutti coloro che avevano a che fare con lui. Le principali qualità che gli procuravano la stima generale in ufficio consistevano, in primo luogo, in una straordinaria indulgenza verso gli altri, basata sulla coscienza dei propri difetti; in secondo luogo, in un grande liberalismo, non quello di cui leggeva nei giornali, ma quello ch'egli aveva nel sangue e che gli faceva trattare perfettamente allo stesso modo tutte le persone, di qualunque classe o condizione fossero; e in terzo luogo, e questa era la cosa più importante, in un'assoluta indifferenza verso gli affari che trattava, per cui non se ne appassionava mai e non commetteva errori. Arrivato in ufficio, Stepan Arkad'ic, accompagnato da un usciere ossequioso che gli portava la cartella, passò nel suo gabinetto particolare, indossò la divisa ed entrò in aula. Gli scrivani e gli impiegati si alzarono tutti, salutandolo con rispetto e giovialità. Stepan Arkad'ic, in fretta come sempre, andò al proprio posto, strinse la mano ai colleghi e sedette. Scherzò e discorse proprio quel tanto che era conveniente, e cominciò il lavoro. Nessuno più di Stepan Arkad'ic sapeva con maggiore precisione il limite tra la cordialità confidenziale e il tono ufficiale, così necessario al piacevole disbrigo degli affari. Il segretario, con giovialità e rispetto, come del resto tutti nell'ufficio di Stepan Arkad'ic, gli si accostò con alcune carte e riferì con quel tono familiarmente libero che era stato introdotto da Stepan Arkad'ic. — Siamo riusciti così ad avere notizie dell'amministrazione provinciale di Penza. Ecco, non vi piacerebbe...

— Le avete avute finalmente — prese a dire Stepan Arkad'ic, fermando col dito la carta. — Allora, signori... — E la seduta cominciò.

«Se sapessero — pensava chinando la testa con aria d'importanza nell'ascoltare il rapporto — che ragazzo colpevole era mezz'ora fa il loro capo!». E gli occhi gli ridevano alla lettura del rapporto. La seduta doveva durare fino alle due, senza interruzione; alle due, intervallo e colazione.

Non erano ancora le due quando la grande porta a vetri dell'aula si aprì improvvisamente e qualcuno entrò. Tutti i membri ritratti sotto il ritratto dell'imperatore e al di là dello specchio a tre facce, lieti della distrazione, si voltarono a guardare verso la porta; ma l'usciere che stava all'ingresso respinse subito colui che s'era infilato e richiuse la porta a vetri. Quando tutto il rapporto fu letto, Stepan Arkad'ic si alzò stiracchiandosi e, pagando il proprio tributo al liberalismo dell'epoca, tirò fuori, ancora nell'aula, una sigaretta, e si avviò nel suo ufficio. Due colleghi, il vecchio funzionario Nikitin e il gentiluomo di camera Grinevic, uscirono con lui.

— Dopo colazione arriveremo a finire — disse Stepan Arkad'ic. — Altro che arriveremo! — disse Nikitin.

— Ma deve essere un furbo matricolato quel Fomin — disse Grinevic accennando a un personaggio implicato nell'affare di cui si discuteva. Alle parole di Grinevic Stepan Arkad'ic si accigliò, facendo capire con questo che non era corretto dare un giudizio prima del tempo, e non rispose nulla. — Chi è entrato? — chiese all'usciere. — Un tale, eccellenza, senza chiedere permesso, s'è fissato dentro appena mi sono girato. Domandava di voi. Io dico: quando usciranno i membri, allora...

— Dov'è? — È forse uscito nell'ingresso, non faceva che camminare. Eccolo — disse l'usciere, indicando un uomo di costituzione forte, largo di spalle, con la barba ricciuta, il quale, senza togliersi il berretto di montone, saliva lesto e leggero i gradini consumati della scala di pietra. Uno di quelli che scendevano, un impiegato magrolino con una cartella sotto il braccio, fermatosi, guardò con riprovazione le gambe di colui che correva e fissò interrogativamente Oblonskij.

Stepan Arkad'ic era dritto in cima alla scala. Il suo viso bonario, che splendeva emergendo dal bavero ricamato dell'uniforme, s'illuminò ancor più quando riconobbe chi correva. — Ma è proprio lui! Levin, finalmente! — esclamò con un sorriso cordialmente canzonatorio, guardando Levin che gli si avvicinava. — Com'è che non hai disdegnato di venirmi a pescare in quest'antro? — disse Stepan Arkad'ic baciando l'amico, non contento di una stretta di mano. — Sei qui da un pezzo?

— Sono arrivato or ora, e avevo una gran voglia di vederti — rispose Levin, guardandosi attorno timido e, nello stesso tempo, inquieto e contrariato.

— Su, andiamo nel mio gabinetto — disse Stepan Arkad'ic, conoscendo la timidezza ombrosa e scontrosa dell'amico; e, presolo per un braccio, lo trascinò dietro di sé come per guidarlo in mezzo ai pericoli. Stepan Arkad'ic si dava del «tu» con quasi tutti i suoi conoscenti: coi vecchi di sessant'anni, coi ragazzi di venti; con gli attori, coi ministri, coi negozianti e con gli aiutanti generali; così che molti di quelli che gli davano del «tu» si trovavano ai due punti estremi della scala sociale, e molti si sarebbero stupiti nel constatare di avere qualcosa di comune per mezzo di Oblonskij. Egli dava del «tu» a tutti quelli con i quali beveva lo champagne , e di champagne ne beveva con tutti; perciò, incontrandosi in presenza dei suoi dipendenti con i suoi «tu» vergognosi , come chiamava scherzando molti amici, sapeva diminuire, con quel tatto che gli era proprio, la spiacevolezza dell'impressione che potevano riportarne i dipendenti. Levin non era un «tu» vergognoso, ma Oblonskij intuì che Levin pensava ch'egli potesse non desiderare di mostrare la propria intimità con lui dinanzi ai propri dipendenti, e perciò si affrettò a condurlo nel proprio gabinetto. Levin era quasi della stessa età di Oblonskij e si davano del «tu» non solo per lo champagne . Levin gli era compagno e amico di prima giovinezza. Si volevano bene, malgrado la diversità dei caratteri e dei gusti, così come si vogliono bene gli amici incontratisi nella prima giovinezza. Malgrado ciò, come capita spesso fra persone che hanno scelto generi diversi di attività, ciascuno di loro, pur giustificando col ragionamento l'attività dell'altro, finiva col disprezzarla dentro di sé. A ciascuno sembrava che la vita che egli stesso conduceva fosse la vera vita, mentre l'altra, quella che conduceva l'amico, non ne fosse che la parvenza. Oblonskij non poteva trattenere un lieve riso canzonatorio alla vista di Levin. L'aveva visto già varie volte arrivare a Mosca dalla campagna dove faceva qualcosa; che cosa facesse precisamente, Stepan Arkad'ic non aveva mai potuto capir bene e non se ne curava. Levin veniva a Mosca sempre agitato, frettoloso, un po' timido e urtato da questa timidezza, e quasi sempre con delle vedute nuove e inaspettate su tutte le cose. Stepan Arkad'ic ne rideva e se ne compiaceva. Nello stesso preciso modo Levin disprezzava dentro di sé il modo di vivere cittadino dell'amico e quel suo impiego che considerava sciocco e vuoto, e ci rideva su. Ma la differenza consisteva in questo: Oblonskij, facendo quello che fanno tutti, rideva con sicurezza e bonarietà, Levin, invece, senza sicurezza e, a volte, con dispetto.

— Ti aspettavamo da tempo — disse Stepan Arkad'ic entrando nello studio e lasciando il braccio di Levin come a dire che là non c'erano più pericoli. — Sono molto contento di rivederti. Ebbene, come va? Quando sei arrivato?

Levin taceva, sbirciando le due facce dei colleghi di Oblonskij che non conosceva, e in particolar modo dell'elegante Grinevic dalle dita affilate e bianche, e dalle unghie così lunghe, gialle e ricurve in punta, e dai gemelli della camicia così grossi e luccicanti che queste mani, evidentemente, avevano assorbito tutta la sua attenzione e non gli davano libertà di pensiero. Oblonskij lo notò subito, e sorrise.

— Ah, già, permettete che vi presenti — disse. — I miei colleghi Filipp Ivanovic Nikitin e Michail Stanislavic Grinevic — e, rivolto verso Levin: — Il fautore del consiglio distrettuale, l'uomo nuovo del consiglio, il ginnasta che solleva con una mano sola cinque pudy , l'allevatore di bestiame, il cacciatore, nonché amico mio, Konstantin Levin, fratello di Sergej Ivanyc Koznyšev. — Molto piacere — disse il vecchietto.

— Ho l'onore di conoscere vostro fratello Sergej Ivanyc — disse Grinevic porgendo la mano affilata dalle unghie lunghe. Levin si accigliò, strinse la mano e si rivolse subito a Oblonskij. Pur avendo una grande considerazione per il fratellastro, scrittore noto in tutta la Russia, non poteva sopportare che ci si rivolgesse a lui, non come Konstantin Levin ma come al fratello del famoso Koznyšev.

— No, non sono più consigliere distrettuale. Ho litigato con tutti, e non vado più alle riunioni — disse a Oblonskij.

— Hai fatto presto, però!— disse Oblonskij con un sorriso. — Ma come, perché?

— È una storia lunga. Una volta o l'altra te la racconterò — disse Levin prendendo però subito a raccontarla. — Ecco, per dirla in breve, mi sono convinto che non c'è e non può esserci alcuna attività distrettuale; — cominciò come se qualcuno l'avesse offeso allora allora: — da una parte è un giuoco; si giuoca al parlamento, ed io non sono abbastanza giovane, né abbastanza vecchio per divertirmi coi balocchi; dall'altra — e qui balbettò — è un mezzo per guadagnare denaro per la coterie del distretto. Prima c'erano le tutele, i tribunali, ora invece c'è il consiglio distrettuale; non è una forma di subordinazione, ma una forma di stipendio non meritato — disse con tanto calore come se qualcuno dei presenti avversasse la sua opinione. — Eh! Ma tu, a quanto vedo, sei ancora in una nuova fase, in quella conservatrice — disse Stepan Arkad'ic. — Ma, del resto, di questo parleremo dopo.

— Sì, dopo. Ma io avevo bisogno di vederti — disse Levin, fissando con antipatia la mano di Grinevic.

Stepan Arkad'ic sorrise appena percettibilmente. — Bè, dicevi che mai più ti saresti messo un vestito all'europea? — disse guardandogli il vestito nuovo, fatto evidentemente da un sarto francese. — Eh, già, vedo, siamo in una fase nuova.

Levin arrossì improvvisamente, ma non come arrossiscono le persone adulte, leggermente, senza avvertirlo, ma come arrossiscono i ragazzi quando sentono d'essere ridicoli con la loro timidezza e, vergognandosene, arrossiscono ancora di più fin quasi alle lacrime. Ed era così strano vedere quel viso intelligente, maschio diventare così infantile, che Oblonskij smise di guardarlo.

— E allora, dove ci vediamo? Ho molto bisogno di parlarti — disse Levin.

Oblonskij si mise a riflettere.

— Ecco, andiamo a far colazione da Gurin e parleremo là. Fino alle tre son libero.

— No — rispose Levin dopo aver pensato un po'; — devo ancora andare in giro. — Su via, andiamo a pranzare insieme.

— Pranzare? Ma io non ho bisogno di niente di straordinario, solo due parole; devo farti una domanda, e a chiacchierare ci penseremo poi.

— E allora, dille subito queste due parole, così a pranzo chiacchiereremo.

— Eccole, le due parole; — disse Levin — del resto, niente di straordinario.

E la sua faccia prese a un tratto un'espressione cattiva, dovuta allo sforzo fatto per vincere la propria timidezza. — Che fanno gli Šcerbackij? Tutto come prima? — disse.

— Tu hai detto due parole, ma io non posso rispondere con due parole, perché... Scusami un momento...

Era entrato il segretario che, con la deferenza familiare e la modesta consapevolezza, comune a tutti i segretari, della propria superiorità, rispetto al capo, nella conoscenza degli affari, si era avvicinato con le carte a Oblonskij e, con aria interrogativa, aveva cominciato a esporre una certa difficoltà. Stepan Arkad'ic, senza finir di ascoltare, pose affabilmente una mano sulla manica del segretario. — No, fate come già vi ho detto — disse addolcendo con un sorriso l'osservazione e, spiegato in breve come intendeva l'affare, allontanò le carte e disse: — Fate così, vi prego, così, Zachar Nikitic. Il segretario, confuso, si allontanò. Levin, che durante il colloquio con il segretario aveva avuto modo di rimettersi completamente, stava in piedi, poggiando tutte e due le mani ad una sedia, e sul suo viso vi era un'attenzione ilare. — Non capisco, non capisco — diceva.

— Cosa non capisci? — chiese Oblonskij sorridendo anche lui allegramente e tirando fuori una sigaretta. Si aspettava da Levin qualche uscita strana.

— Non capisco quello che fate — disse Levin alzando le spalle. — Come puoi prendere tutto questo sul serio?

— Perché?

— Ma perché qui non avete nulla da fare.

— Tu credi così, ma noi siamo sovraccarichi di lavoro.

— Scartoffie! Già, ma tu ci sei tagliato per questo — aggiunse Levin.

— Allora tu credi che io manchi di qualcosa?

— Forse sì — disse Levin. — Tuttavia ammiro la tua importanza e sono orgoglioso di avere un così grand'uomo per amico. Ma tu non hai risposto alla mia domanda — aggiunse guardando Oblonskij con uno sforzo disperato, diritto negli occhi.

— E va bene, e va bene. Aspetta un po' e arriverai a questo anche tu. Finché hai tremila desjatiny nel distretto di Karazin e questi muscoli e la freschezza di una ragazzina di dodici anni, va tutto bene, ma poi ci arriverai anche tu. Già, ecco, a proposito di quello che mi chiedevi; nessun cambiamento, ma peccato che tu sia stato lontano tanto tempo.

— Perché?

che c'è? — chiese Levin spaventato.

— No, nulla — rispose Oblonskij. — Ne riparleremo. Ma tu per quale particolare motivo sei venuto?

— Ah, di questo parleremo poi — disse Levin, arrossendo di nuovo fino alle orecchie.

— Su, va bene, ho capito — disse Stepan Arkad'ic. — Vedi: ti avrei invitato a casa, ma mia moglie non sta bene. Ecco, però; se le vuoi vedere, oggi sono certamente al giardino zoologico, dalle quattro alle cinque. Kitty va a pattinare. Tu va' là; io passerò, e andremo a pranzare insieme in qualche posto. — Benissimo, arrivederci, allora.

— Guarda, io ti conosco; tu sei capace di scordartene o di partirtene subito per la campagna! — rise Stepan Arkad'ic. — No, certamente.

E dopo essersi ricordato di non aver salutato i colleghi di Oblonskij soltanto quand'era già sulla porta, Levin uscì dall'ufficio. — Deve essere un proprietario pieno di energia — disse Grinevic, quando Levin fu uscito.

— Sì, amico mio — disse Stepan Arkad'ic annuendo col capo — ecco un uomo felice! Tremila desjatiny nel distretto di Karazin, tutto davanti a sé e quanta vitalità! Non così noi!

— Perché vi lamentate, Stepan Arkad'ic? — Va male, proprio male — disse Stepan Arkad'ic sospirando pesantemente.


Parte Prima: Capitolo V Part One: Chapter V Primera parte: Capítulo V Première partie : Chapitre V Część pierwsza: Rozdział V Primeira parte: Capítulo V

Stepan Arkad'ic a scuola aveva studiato bene, grazie alle sue buone capacità, ma, pigro e svagato, aveva finito gli studi tra gli ultimi. Tuttavia, pur conducendo una vita sempre scapestrata, in età ancor giovane, con un titolo modesto, aveva ottenuto il posto ragguardevole e ben retribuito di capo di uno degli uffici amministrativi di Mosca. Sin embargo, llevando siempre una vida salvaje, a muy temprana edad, con un modesto título, había obtenido el notable y bien pagado puesto de jefe de una de las oficinas administrativas de Moscú. Aveva avuto questo posto per mezzo del marito di Anna, Aleksej Aleksandrovic Karenin, il quale occupava uno dei più alti gradi nel ministero a cui apparteneva l'ufficio; ma se Karenin non avesse designato suo cognato a quel posto, Stiva Oblonskij, per mezzo di un centinaio di alti personaggi, fratelli, sorelle, prozii, zii, zie, avrebbe avuto quel posto o altro equivalente con quei seimila rubli di stipendio che gli erano necessari, perché i suoi affari, malgrado la considerevole proprietà della moglie, andavano male. Una buona metà della società di Mosca e Pietroburgo era in relazioni di parentela o di amicizia con Stepan Arkad'ic. Egli era nato nella cerchia di coloro che erano o erano in seguito diventati i potenti di quel mondo. Un terzo dei funzionari di stato, i vecchi, erano amici di suo padre e lo avevano visto nascere; un altro terzo gli davano del «tu» e un terzo ancora erano suoi buoni conoscenti. Pertanto, i dispensatori di beni terreni sotto forma di posti, appalti, concessioni e cose simili, erano tutti amici suoi e non avrebbero mai lasciato fuori uno dei loro. Così Oblonskij non aveva dovuto brigare per ottenere un posto vantaggioso; gli era bastato non rifiutare, non avere invidie, non leticare, non offendersi, cose tutte ch'egli neppure faceva per quella bonarietà che gli era propria. Gli sarebbe parso ridicolo se gli avessero detto che non avrebbe ottenuto un posto retribuito con lo stipendio che gli era necessario, dal momento che non pretendeva niente di eccezionale, ma voleva solo quello che avevano gli altri suoi coetanei quando, non peggio di chiunque altro, egli era in grado di adempiere una funzione di tal genere.

A Stepan Arkad'ic volevano bene tutti quelli che lo conoscevano non solo per quel suo carattere buono e gioviale e per la sua indubbia onestà, ma perché in quel suo bell'aspetto luminoso, negli occhi splendenti, nelle sopracciglia e nei capelli neri, nel colorito bianco e rosso del viso vi era qualcosa che agiva in modo cordiale e festoso sul fisico delle persone che lo incontravano. «Oh, Stiva! Oblonskij! Eccolo!» dicevano quasi sempre con un sorriso di gioia, incontrandolo. ¡Ahi esta!" casi siempre decían con una sonrisa de alegría al conocerlo. E anche se talvolta ci si rendeva conto che, dopo una conversazione con lui, non succedeva nulla di particolarmente gioioso, l'indomani, due giorni dopo, tutti di nuovo si rallegravano nell'incontrarlo, proprio allo stesso modo. Occupando già da tre anni il posto di capo di uno degli uffici amministrativi di Mosca, Stepan Arkad'ic aveva conquistato, oltre la simpatia, la stima dei colleghi, dei dipendenti, dei superiori, e di tutti coloro che avevano a che fare con lui. Le principali qualità che gli procuravano la stima generale in ufficio consistevano, in primo luogo, in una straordinaria indulgenza verso gli altri, basata sulla coscienza dei propri difetti; in secondo luogo, in un grande liberalismo, non quello di cui leggeva nei giornali, ma quello ch'egli aveva nel sangue e che gli faceva trattare perfettamente allo stesso modo tutte le persone, di qualunque classe o condizione fossero; e in terzo luogo, e questa era la cosa più importante, in un'assoluta indifferenza verso gli affari che trattava, per cui non se ne appassionava mai e non commetteva errori. Arrivato in ufficio, Stepan Arkad'ic, accompagnato da un usciere ossequioso che gli portava la cartella, passò nel suo gabinetto particolare, indossò la divisa ed entrò in aula. Gli scrivani e gli impiegati si alzarono tutti, salutandolo con rispetto e giovialità. Stepan Arkad'ic, in fretta come sempre, andò al proprio posto, strinse la mano ai colleghi e sedette. Scherzò e discorse proprio quel tanto che era conveniente, e cominciò il lavoro. Nessuno più di Stepan Arkad'ic sapeva con maggiore precisione il limite tra la cordialità confidenziale e il tono ufficiale, così necessario al piacevole disbrigo degli affari. Il segretario, con giovialità e rispetto, come del resto tutti nell'ufficio di Stepan Arkad'ic, gli si accostò con alcune carte e riferì con quel tono familiarmente libero che era stato introdotto da Stepan Arkad'ic. — Siamo riusciti così ad avere notizie dell'amministrazione provinciale di Penza. Ecco, non vi piacerebbe...

— Le avete avute finalmente — prese a dire Stepan Arkad'ic, fermando col dito la carta. "You finally had them," Stepan Arkadic began to say, stopping the paper with his finger. — Allora, signori... — E la seduta cominciò.

«Se sapessero — pensava chinando la testa con aria d'importanza nell'ascoltare il rapporto — che ragazzo colpevole era mezz'ora fa il loro capo!». E gli occhi gli ridevano alla lettura del rapporto. And his eyes laughed as he read the report. La seduta doveva durare fino alle due, senza interruzione; alle due, intervallo e colazione.

Non erano ancora le due quando la grande porta a vetri dell'aula si aprì improvvisamente e qualcuno entrò. Tutti i membri ritratti sotto il ritratto dell'imperatore e al di là dello specchio a tre facce, lieti della distrazione, si voltarono a guardare verso la porta; ma l'usciere che stava all'ingresso respinse subito colui che s'era infilato e richiuse la porta a vetri. Quando tutto il rapporto fu letto, Stepan Arkad'ic si alzò stiracchiandosi e, pagando il proprio tributo al liberalismo dell'epoca, tirò fuori, ancora nell'aula, una sigaretta, e si avviò nel suo ufficio. Due colleghi, il vecchio funzionario Nikitin e il gentiluomo di camera Grinevic, uscirono con lui.

— Dopo colazione arriveremo a finire — disse Stepan Arkad'ic. — Altro che arriveremo! — disse Nikitin.

— Ma deve essere un furbo matricolato quel Fomin — disse Grinevic accennando a un personaggio implicato nell'affare di cui si discuteva. Alle parole di Grinevic Stepan Arkad'ic si accigliò, facendo capire con questo che non era corretto dare un giudizio prima del tempo, e non rispose nulla. — Chi è entrato? — chiese all'usciere. — Un tale, eccellenza, senza chiedere permesso, s'è fissato dentro appena mi sono girato. - Such, excellent, without asking permission, has fixed itself in as soon as I turned around. Domandava di voi. Io dico: quando usciranno i membri, allora...

— Dov'è? — È forse uscito nell'ingresso, non faceva che camminare. Eccolo — disse l'usciere, indicando un uomo di costituzione forte, largo di spalle, con la barba ricciuta, il quale, senza togliersi il berretto di montone, saliva lesto e leggero i gradini consumati della scala di pietra. Uno di quelli che scendevano, un impiegato magrolino con una cartella sotto il braccio, fermatosi, guardò con riprovazione le gambe di colui che correva e fissò interrogativamente Oblonskij.

Stepan Arkad'ic era dritto in cima alla scala. Il suo viso bonario, che splendeva emergendo dal bavero ricamato dell'uniforme, s'illuminò ancor più quando riconobbe chi correva. — Ma è proprio lui! Levin, finalmente! — esclamò con un sorriso cordialmente canzonatorio, guardando Levin che gli si avvicinava. — Com'è che non hai disdegnato di venirmi a pescare in quest'antro? — disse Stepan Arkad'ic baciando l'amico, non contento di una stretta di mano. — Sei qui da un pezzo?

— Sono arrivato or ora, e avevo una gran voglia di vederti — rispose Levin, guardandosi attorno timido e, nello stesso tempo, inquieto e contrariato.

— Su, andiamo nel mio gabinetto — disse Stepan Arkad'ic, conoscendo la timidezza ombrosa e scontrosa dell'amico; e, presolo per un braccio, lo trascinò dietro di sé come per guidarlo in mezzo ai pericoli. Stepan Arkad'ic si dava del «tu» con quasi tutti i suoi conoscenti: coi vecchi di sessant'anni, coi ragazzi di venti; con gli attori, coi ministri, coi negozianti e con gli aiutanti generali; così che molti di quelli che gli davano del «tu» si trovavano ai due punti estremi della scala sociale, e molti si sarebbero stupiti nel constatare di avere qualcosa di comune per mezzo di Oblonskij. Egli dava del «tu» a tutti quelli con i quali beveva lo champagne , e di champagne ne beveva con tutti; perciò, incontrandosi in presenza dei suoi dipendenti con i suoi «tu» vergognosi , come chiamava scherzando molti amici, sapeva diminuire, con quel tatto che gli era proprio, la spiacevolezza dell'impressione che potevano riportarne i dipendenti. Levin non era un «tu» vergognoso, ma Oblonskij intuì che Levin pensava ch'egli potesse non desiderare di mostrare la propria intimità con lui dinanzi ai propri dipendenti, e perciò si affrettò a condurlo nel proprio gabinetto. Levin era quasi della stessa età di Oblonskij e si davano del «tu» non solo per lo champagne . Levin gli era compagno e amico di prima giovinezza. Si volevano bene, malgrado la diversità dei caratteri e dei gusti, così come si vogliono bene gli amici incontratisi nella prima giovinezza. Malgrado ciò, come capita spesso fra persone che hanno scelto generi diversi di attività, ciascuno di loro, pur giustificando col ragionamento l'attività dell'altro, finiva col disprezzarla dentro di sé. A ciascuno sembrava che la vita che egli stesso conduceva fosse la vera vita, mentre l'altra, quella che conduceva l'amico, non ne fosse che la parvenza. Oblonskij non poteva trattenere un lieve riso canzonatorio alla vista di Levin. L'aveva visto già varie volte arrivare a Mosca dalla campagna dove faceva qualcosa; che cosa facesse precisamente, Stepan Arkad'ic non aveva mai potuto capir bene e non se ne curava. Levin veniva a Mosca sempre agitato, frettoloso, un po' timido e urtato da questa timidezza, e quasi sempre con delle vedute nuove e inaspettate su tutte le cose. Stepan Arkad'ic ne rideva e se ne compiaceva. Nello stesso preciso modo Levin disprezzava dentro di sé il modo di vivere cittadino dell'amico e quel suo impiego che considerava sciocco e vuoto, e ci rideva su. Ma la differenza consisteva in questo: Oblonskij, facendo quello che fanno tutti, rideva con sicurezza e bonarietà, Levin, invece, senza sicurezza e, a volte, con dispetto.

— Ti aspettavamo da tempo — disse Stepan Arkad'ic entrando nello studio e lasciando il braccio di Levin come a dire che là non c'erano più pericoli. — Sono molto contento di rivederti. Ebbene, come va? Quando sei arrivato?

Levin taceva, sbirciando le due facce dei colleghi di Oblonskij che non conosceva, e in particolar modo dell'elegante Grinevic dalle dita affilate e bianche, e dalle unghie così lunghe, gialle e ricurve in punta, e dai gemelli della camicia così grossi e luccicanti che queste mani, evidentemente, avevano assorbito tutta la sua attenzione e non gli davano libertà di pensiero. Oblonskij lo notò subito, e sorrise.

— Ah, già, permettete che vi presenti — disse. — I miei colleghi Filipp Ivanovic Nikitin e Michail Stanislavic Grinevic — e, rivolto verso Levin: — Il fautore del consiglio distrettuale, l'uomo nuovo del consiglio, il ginnasta che solleva con una mano sola cinque pudy , l'allevatore di bestiame, il cacciatore, nonché amico mio, Konstantin Levin, fratello di Sergej Ivanyc Koznyšev. — Molto piacere — disse il vecchietto.

— Ho l'onore di conoscere vostro fratello Sergej Ivanyc — disse Grinevic porgendo la mano affilata dalle unghie lunghe. Levin si accigliò, strinse la mano e si rivolse subito a Oblonskij. Pur avendo una grande considerazione per il fratellastro, scrittore noto in tutta la Russia, non poteva sopportare che ci si rivolgesse a lui, non come Konstantin Levin ma come al fratello del famoso Koznyšev.

— No, non sono più consigliere distrettuale. Ho litigato con tutti, e non vado più alle riunioni — disse a Oblonskij.

— Hai fatto presto, però!— disse Oblonskij con un sorriso. — Ma come, perché?

— È una storia lunga. Una volta o l'altra te la racconterò — disse Levin prendendo però subito a raccontarla. — Ecco, per dirla in breve, mi sono convinto che non c'è e non può esserci alcuna attività distrettuale; — cominciò come se qualcuno l'avesse offeso allora allora: — da una parte è un giuoco; si giuoca al parlamento, ed io non sono abbastanza giovane, né abbastanza vecchio per divertirmi coi balocchi; dall'altra — e qui balbettò — è un mezzo per guadagnare denaro per la coterie del distretto. Prima c'erano le tutele, i tribunali, ora invece c'è il consiglio distrettuale; non è una forma di subordinazione, ma una forma di stipendio non meritato — disse con tanto calore come se qualcuno dei presenti avversasse la sua opinione. — Eh! Ma tu, a quanto vedo, sei ancora in una nuova fase, in quella conservatrice — disse Stepan Arkad'ic. — Ma, del resto, di questo parleremo dopo.

— Sì, dopo. Ma io avevo bisogno di vederti — disse Levin, fissando con antipatia la mano di Grinevic.

Stepan Arkad'ic sorrise appena percettibilmente. — Bè, dicevi che mai più ti saresti messo un vestito all'europea? — disse guardandogli il vestito nuovo, fatto evidentemente da un sarto francese. — Eh, già, vedo, siamo in una fase nuova.

Levin arrossì improvvisamente, ma non come arrossiscono le persone adulte, leggermente, senza avvertirlo, ma come arrossiscono i ragazzi quando sentono d'essere ridicoli con la loro timidezza e, vergognandosene, arrossiscono ancora di più fin quasi alle lacrime. Ed era così strano vedere quel viso intelligente, maschio diventare così infantile, che Oblonskij smise di guardarlo.

— E allora, dove ci vediamo? Ho molto bisogno di parlarti — disse Levin.

Oblonskij si mise a riflettere.

— Ecco, andiamo a far colazione da Gurin e parleremo là. Fino alle tre son libero.

— No — rispose Levin dopo aver pensato un po'; — devo ancora andare in giro. — Su via, andiamo a pranzare insieme.

— Pranzare? Ma io non ho bisogno di niente di straordinario, solo due parole; devo farti una domanda, e a chiacchierare ci penseremo poi.

— E allora, dille subito queste due parole, così a pranzo chiacchiereremo.

— Eccole, le due parole; — disse Levin — del resto, niente di straordinario.

E la sua faccia prese a un tratto un'espressione cattiva, dovuta allo sforzo fatto per vincere la propria timidezza. — Che fanno gli Šcerbackij? Tutto come prima? — disse.

— Tu hai detto due parole, ma io non posso rispondere con due parole, perché... Scusami un momento...

Era entrato il segretario che, con la deferenza familiare e la modesta consapevolezza, comune a tutti i segretari, della propria superiorità, rispetto al capo, nella conoscenza degli affari, si era avvicinato con le carte a Oblonskij e, con aria interrogativa, aveva cominciato a esporre una certa difficoltà. Stepan Arkad'ic, senza finir di ascoltare, pose affabilmente una mano sulla manica del segretario. — No, fate come già vi ho detto — disse addolcendo con un sorriso l'osservazione e, spiegato in breve come intendeva l'affare, allontanò le carte e disse: — Fate così, vi prego, così, Zachar Nikitic. Il segretario, confuso, si allontanò. Levin, che durante il colloquio con il segretario aveva avuto modo di rimettersi completamente, stava in piedi, poggiando tutte e due le mani ad una sedia, e sul suo viso vi era un'attenzione ilare. — Non capisco, non capisco — diceva.

— Cosa non capisci? — chiese Oblonskij sorridendo anche lui allegramente e tirando fuori una sigaretta. Si aspettava da Levin qualche uscita strana.

— Non capisco quello che fate — disse Levin alzando le spalle. — Come puoi prendere tutto questo sul serio?

— Perché?

— Ma perché qui non avete nulla da fare.

— Tu credi così, ma noi siamo sovraccarichi di lavoro.

— Scartoffie! Già, ma tu ci sei tagliato per questo — aggiunse Levin.

— Allora tu credi che io manchi di qualcosa?

— Forse sì — disse Levin. — Tuttavia ammiro la tua importanza e sono orgoglioso di avere un così grand'uomo per amico. Ma tu non hai risposto alla mia domanda — aggiunse guardando Oblonskij con uno sforzo disperato, diritto negli occhi.

— E va bene, e va bene. Aspetta un po' e arriverai a questo anche tu. Finché hai tremila desjatiny nel distretto di Karazin e questi muscoli e la freschezza di una ragazzina di dodici anni, va tutto bene, ma poi ci arriverai anche tu. As long as you have three thousand desjatiny in the Karazin district and these muscles and the freshness of a twelve-year-old girl, everything is fine, but then you will get there too. Già, ecco, a proposito di quello che mi chiedevi; nessun cambiamento, ma peccato che tu sia stato lontano tanto tempo.

— Perché?

che c'è? — chiese Levin spaventato.

— No, nulla — rispose Oblonskij. — Ne riparleremo. Ma tu per quale particolare motivo sei venuto?

— Ah, di questo parleremo poi — disse Levin, arrossendo di nuovo fino alle orecchie.

— Su, va bene, ho capito — disse Stepan Arkad'ic. — Vedi: ti avrei invitato a casa, ma mia moglie non sta bene. Ecco, però; se le vuoi vedere, oggi sono certamente al giardino zoologico, dalle quattro alle cinque. Kitty va a pattinare. Tu va' là; io passerò, e andremo a pranzare insieme in qualche posto. — Benissimo, arrivederci, allora.

— Guarda, io ti conosco; tu sei capace di scordartene o di partirtene subito per la campagna! - Olha, eu te conheço; você pode esquecer ou partir imediatamente para o campo! — rise Stepan Arkad'ic. — No, certamente.

E dopo essersi ricordato di non aver salutato i colleghi di Oblonskij soltanto quand'era già sulla porta, Levin uscì dall'ufficio. — Deve essere un proprietario pieno di energia — disse Grinevic, quando Levin fu uscito.

— Sì, amico mio — disse Stepan Arkad'ic annuendo col capo — ecco un uomo felice! Tremila desjatiny nel distretto di Karazin, tutto davanti a sé e quanta vitalità! Non così noi!

— Perché vi lamentate, Stepan Arkad'ic? - Por que você está reclamando, Stepan Arkad'ic? — Va male, proprio male — disse Stepan Arkad'ic sospirando pesantemente.